Nomi, e non altro
Dai brindisi e festeggiamenti di allievi e colleghi per la fine della scuola alla triste compostezza del bet ha-keneset dove si legge la lunga lista dei nomi dei torinesi scomparsi nella Shoah. Un salto brusco, quello di martedì scorso, ma noi ebrei siamo abituati a questi contrasti. Il 10 di Tevet cade spesso in questo periodo che per gli altri è festivo. In fin dei conti ci aiuta a ricordare che la Shoah è stata una lacerazione. Un salto brusco e violento. Qualcosa che ha segnato un prima e un dopo. Senza tutte le persone di cui si leggono i nomi le nostre famiglie e le nostre Comunità non sono state più le stesse di prima, e, soprattutto, non sono state e non sono quello che avrebbero potuto essere. Per questo ricordare la Shoah è una necessità prima di tutto nostra, non un cedimento a interessi e priorità altrui. Ma è giusto avere almeno un giorno all’anno in cui lo facciamo a modo nostro, con i nostri tempi, la nostra liturgia e il nostro linguaggio, in una data nostra, nell’ambito di un digiuno preesistente. E, soprattutto, è giusto avere almeno una volta all’anno la possibilità di ricordare semplicemente i nostri cari scomparsi nella Shoah, senza messaggi ideologici e senza improbabili collegamenti o riferimenti di alcun genere alla realtà israeliana di oggi.
Anna Segre, insegnante
(25 dicembre 2015)