Diritti e tradizione
Dinanzi ai ripetuti rimandi ai diritti alla differenza, variamente declinati gli uni (i diritti) e l’altra (la differenza), sembra che il grande assente, in un’Europa oramai in perenne affanno, dove populismi e fondamentalismi hanno conquistato e sedimentato largo spazio, essendosi sostituiti alla politica in quanto tale, sia il diritto all’eguaglianza. Che non è il dovere, magari ricoperto da un involucro suadente e seducente, di essere identici a prescindere. Semmai, laddove concretamente declinato in norme, atti e politiche concrete, è la premessa affinché le differenze possano svilupparsi senza che siano calpestate o rese improduttive o, ancor peggio, ricondotte all’impotenza di chi può solo guardarsi allo specchio per registrare il suo ‘magnifico isolamento’, quello del ridursi ad essere non molto di più di una gloriosa ma infruttifera raffigurazione di sé. Magari scambiando per forza ciò che invece segna il suo limite, ovvero l’effetto del riprodursi nel solo specchio, senza ulteriori esiti. Immagine e immaginazione, in altre parole, e non qualcosa che vada oltre. Per essere ‘diversi’ bisogna condividere qualcosa con gli ‘altri’. Poco ma certo, tanto più in società globalizzate, dove il superamento di confini e barriere porta a molta circolazione, ad incontri ma anche e soprattutto a ibridazioni e conflitti. È questo il senso della libertà della quale tutti ci gioviamo e che chiamiamo ‘cittadinanza’. Non un astratto insieme di prescrizioni ma il campo delle possibilità in cui esseri umani che vantano anche appartenenze diverse, convivono e condividono qualcosa, a partire da luoghi e bisogni. Il sogno di una ‘comunità’ come insieme di omologhi, autosufficienti, capaci in qualche modo di bastare a sé reciprocamente, trova qui il suo vero limite, trattandosi piuttosto del doversi confrontare con il bisogno di una società, possibilmente più ampia di quella definita dai confini nazionali, dove il mutamento si incontra con il radicamento. Altrimenti ciò che chiamiamo ‘tradizione’ rischia di rivelarsi per ciò che intimamente potrebbe divenire, ossia una vuota icona, un simulacro di un’identità che si pensa (desiderandosi come tale ma sapendo, in fondo, di non poterlo essere) in quanto ultima trincea dell’immodificabilità, quando invece è la concreta risultante delle trasformazioni, degli adattamenti, degli scambi avvenuti ed in corso. Affinché ciò che è integrazione non diventi assimilazione e quello che già è non si perda in un pulviscolo di monadi, in una sorta di molecolarizzazione ossessiva, dove l’unico filo rosso della ricomposizione è il marketing del consumo (anche di quello culturale), si può e si deve ripartire da se stessi non per viversi in una ‘diversità’ fatta di prerogative intangibili bensì di relazioni simmetriche. Le quali non sono mai un venire meno alla propria identità ma parte della sua costruzione. Il resto, sia permesso dirlo, è invece limitazione che rischia di generare ‘castrazione’, quanto meno in senso lato. Poiché riconduce allo stadio primordiale, quello di chi pensa a se stesso come ad una totalità autosufficiente, quando, invece, il mondo intorno a lui lo ha sorpassato. Un indice, al riguardo, è quello demografico. Implacabile e impietoso nella sua ingenerosa oggettività. Se non si vuole perdere il passo ci si deve confrontare con esso non nel senso di richiamarsi alla mancanza di riguardo per una siepe identitaria ma per capire quanto questa siepe possa e debba essere inclusiva. Detto questo, si apre un orizzonte pieno di implicazioni sul quale ragionare. A partire dal fatto che certe attenzioni sulla storia più recente, se risolte in una sorta di ossessivo rimando al passato, soprattutto quello più doloroso, rischiano di produrre una vera e propria eterogenesi dei fini: lo si fa per coscienza civile ma si rischia di dissolvere se stessi, come la busta di sostanze in forma di polveri dell’Idrolitina, quella che un tempo in non poche famiglie si usava per dare effervescenza all’acqua come ad altre sostanze liquide, altrimenti un po’ ‘smorte’ e sciape. Ci sono situazioni oggettive, materiali, dove l’interrogarsi sul destino, proprio e altrui, non può essere ricondotto immediatamente alle abituali – e confortanti – categorie morali: buono o cattivo, giusto o sbagliato. Affrontare apertamente, senza rimandi ideologici precostituiti, i conflitti che i cambiamenti inducono anche in sé, è il primo punto per coniugare la persistenza con il mutamento. Affinché il secondo non risulti ingovernato, imponendosi infine con la tangibilità della sua potenza, quella che gli deriva dall’essere un groviglio di rapporti di forza dove si è in condizione di perenne minorità e non di vivace minoranza.
Claudio Vercelli
(27 dicembre 2015)