Periscopio – Amos Oz
Giudico Amos Oz certamente uno dei più grandi scrittori viventi, e anche uno dei più alti talenti letterari di tutti i tempi.
Naturalmente, come a tutti gli autori molto prolifici, anche a lui capita di produrre opere più o meno felici. Come si dice, anche il Poeta talvolta può sonnecchiare. Ma, quando tiene lontane da sé le tentazioni della pedagogia, quando la sua raffinata tecnica di scrittura si sposa col suo profondo scrigno di emozioni, quando le corde della memoria risuonano insieme a quelle della fantasia e il sentimento e la parola si fondono nel misterioso atto creativo, allora Oz raggiunge vette insuperabili.
Se dovessi salvare da un rogo generale soltanto dieci libri, probabilmente tra questi sceglierei Una storia di amore e di tenebra. E, se mi chiedessero, di questo libro, di salvare soltanto alcune pagine, sceglierei forse quelle in cui lo scrittore rievoca l’urlo di commozione e di incredulità che squarciò l’assoluto silenzio allorché, in una Gerusalemme attonita, straziata, sbigottita, la radio comunicò, il 29 novembre 1947, che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva approvato la risoluzione che apriva la strada, dopo diciannove secoli, fiumi di sangue e milioni di vittime, alla rinascita di Israele. Un urlo – non ho bisogno di prendere in mano il libro per citarlo, ne rammento le parole a memoria – che accomunava le voci dei vivi e dei morti, e di coloro che ancora sarebbero caduti per dare la vita a quel sogno che era, è e sarà la patria degli ebrei.
Il piccolo Oz giacque poi nel letto accanto a suo padre, che il figlio non aveva mai visto piangere in vita sua, e la sua mano di fanciullo, tastando il volto del genitore, percepì l’umido delle lacrime. Ma neanche in quell’occasione, ricorda lo scrittore, egli vide quelle lacrime: soltanto la sua mano “le vide”.
Sessantotto anni dopo, quello stesso bambino, diventato il grandissimo scrittore che conosciamo, ha comunicato la sua scelta di non partecipare più a nessuna iniziativa in suo onore promossa dalle ambasciate israeliane nel mondo, in segno di protesta contro la politica sugli insediamenti adottata dal governo di Gerusalemme. Una decisione, dice Oz, non facile, ma “molto dolorosa”.
Abbiamo sempre pensato, e continueremo a farlo, che la forza di Israele risieda nel vigore della sua democrazia, nell’assoluta libertà di pensiero e di critica e abbiamo sempre ritenuto le continue e dure critiche rivolte alla politica israeliana dagli stessi cittadini d’Israele – e, in primis, dai suoi intellettuali – come un inestimabile tesoro di energia e libertà, la linfa vitale di un Paese la cui principale colpa è proprio quella di essere così irriducibilmente diverso da tutti i suoi vicini, le cui opinioni pubbliche paiono schiacciate sotto pesanti cappe di conformismo e paura, nei quali ogni minima critica al dittatore di turno può costare la vita, e le uniche parole ammesse sembrano essere soltanto quelle di odio e di morte, inutile dire nei confronti di chi.
Vorremmo quindi, anche in questa occasione, ringraziare Amos Oz per averci dato un’ennesima dimostrazione di spirito critico, libertà di pensiero, indipendenza di giudizio.
Vorremmo, ma non ci riusciamo, perché ci sembra proprio che il grande scrittore abbia passato il segno, dissociandosi non solo dalla politica del suo governo, ma anche, tout court, dal suo Paese, globalmente inteso. Perché le Ambasciate di Israele nel mondo – come Oz certamente saprà – non sono delle succursali del Likud o degli uffici del Premier, ma rappresentano, al di là dei vari governi, tutto lo Stato di Israele: il Paese di cui Oz è cittadino (almeno fintanto che non dovesse decidere, come ulteriore segno di protesta, di rinunciare anche alla cittadinanza), quello stesso Paese per la cui annunciata nascita furono versate quelle lacrime che “videro” le sue dita di bambino.
Assediato da nemici che ne invocano ossessivamente la morte e la distruzione, colpito a sangue quasi ogni giorno nei suoi inermi cittadini, sottoposto quotidianamente, in tutto il mondo, alle più odiose discriminazioni (con atleti esclusi dalle competizioni, artisti a cui è impedito di esibirsi, viaggiatori a cui le compagnie aeree si rifiutano di vendere i biglietti, prodotti boicottati o etichettati con stelle gialle ‘2.0’ ecc. ecc.), quel Paese aveva, tra le poche consolazioni, quella di potersi vantare di avere donato all’umanità artisti di ineguagliabile levatura: tra cui, in primo luogo, lo stesso Oz. Il quale, ora, non vuole più associare il suo nome a quello di Israele.
Che dire? Peccato. Oz ha fatto la sua scelta, ne prendiamo atto. La già pesantissima solitudine di Israele si fa ancora più dura e tangibile, lo sguardo sinistro dei suoi nemici ancora più vicino e minaccioso, il buio sempre più fitto.
Continueremo a leggere e ad amare lo scrittore, sia pure con molta tristezza. Prenderemo la sua scelta come sprone per moltiplicare il nostro impegno a difesa della patria degli ebrei: che, privata dell’appoggio di un sì grande artista, avrà forse ancora più bisogno di sostegno, sia pure proveniente da persone di modesta levatura e nessuna notorietà, delle quali si dovrà accontentare.
Francesco Lucrezi, storico
(30 dicembre 2015)