Sangue che unisce, sangue che divide
“Ma un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano? Se ci ferite noi non sanguiniamo?”.
È il monologo di Shylock, il tanto vituperato mercante ebreo creato dal drammaturgo William Shakespeare che, scritto sui muri del Museo ebraico di Londra, ci guida all’interno di una delle mostre più provocatorie, intelligenti e inevitabilmente necessarie che siano mai state realizzate.
Blood – Uniting and Dividing, l’esposizione che sarà possibile visitare fino al 28 febbraio del 2016, si interroga sul tema che racchiude in sé drammi, rituali, identità e persecuzioni: il sangue.
Cosa simboleggia il sangue nell’ebraismo? Perché esso è un fondamentale regolatore della vita religiosa? Come è arrivato ad essere il pretesto per dare il via a violenti episodi di antisemitismo fino all’ignominiosa accusa di omicidi rituali?
Blood tenta di rispondere a tutto questo, e lo fa offrendo allo spettatore un percorso assai complesso che si muove in parallelo su due fronti: il sangue come protagonista principale dell’esistenza di ogni ebreo e il sangue come scusa per isolare le comunità della diaspora fino a volerne, giunti all’estremo, l’annientamento.
Gli utensili esposti raccontano riti come la circoncisione o la macellazione degli animali, che devono essere dissanguati poiché cibarsi di sangue significherebbe violare la vita, la loro anima (tra le testimonianze offerte, un vecchio manuale marocchino nel quale si indicava la corretta casherizzazione degli alimenti). Le iconografie illustrano poi come Pesach, la Pasqua ebraica, abbia diversi simboli che la legano fortemente al sangue: la prima piaga mandata dal Signore agli egiziani per liberare gli ebrei dalla schiavitù fu la tramutazione di acqua nel sangue e gli stessi ebrei dovettero apporre del sangue di agnello sulle loro porte per essere protetti dall’ultima piaga: la morte dei primogeniti.
Una celebrazione, quella di Pesach, che porterà però anche una delle false accuse più dolorose che perseguiteranno il popolo mosaico a partire dall’XI secolo: quello di rapire e sacrificare i bambini cristiani per preparare con il loro sangue le azzime.
Un pretesto che diede il via a secoli di pogrom, terribilmente cruenti, e che è ritornato di recente al centro del dibattito in maniera assai controversa. E se ogni comunità del mondo tende ad identificarsi attraverso il sangue, esso – introduce la mostra – è stato anche il punto di partenza per alienare gli ebrei: dalla dimostrazione della propria “limpieza de sangre” che ossessionò la Spagna dopo il Decreto di Alhambra e la cacciata degli ebrei, alla documentazione, in mostra, sulla politica nazista delle Leggi di Norimberga che determinavano la superiorità della “razza ariana”.
I percorsi tematici terminano poi con l’attualità e un ritorno alla visione scientifica: lo studio delle malattie che tendono a manifestarsi con maggiore frequenza in persone di origine ashkenazita (legate quindi ad antichi vincoli familiari) e la scoperta rivoluzionaria di Karl Landsteiner, il medico viennese premio Nobel nel 1930, che dimostrò l’esistenza dei gruppi sanguigni.
Un paradosso che ha attraversato i secoli
Accolta dalla critica con entusiasmo, la mostra Blood è curata da Joanne Rosenthal e vede la collaborazione di due brillanti creativi del panorama artistico londinese: l’architetto Alan Farlie e il designer Tom Piper, già al centro della scena lo scorso anno con l’istallazione Blood Swept Lands and Seas of Red alla Torre di Londra, che prevedeva l’esposizione di 888,246 papaveri di ceramica, come in un mare di sangue, per rendere omaggio ai caduti dell’esercito inglese durante la Prima guerra mondiale. Oltre all’allestimento accattivante, la mostra del Jewish Museum si arricchisce di una iniziativa realizzata in collaborazione con l’NHS, il sistema sanitario nazionale, che invita il pubblico a donare il sangue: il prossimo febbraio si darà infatti il via alle donazioni.
“Un modo – ha spiegato Abigail Morris, direttrice esecutiva del museo – per rendersi utili”. Specialmente e si pensa come le donazioni nel Paese siano tristemente scese oltre il 40% rispetto agli anni passati. Ma non solo; per chi volesse andare più a fondo sul rapporto tra ebraismo e sangue, per l’occasione
l’istituto di ricerca sull’antisemitismo Pears ha pubblicato Blood – reflections on what unites and divides us, una raccolta di saggi che affronta l’argomento. “Il sangue – spiega il direttore del Pears David Feldman – è centrale per la religione ebraica e i rituali ed è stato usato dagli ebrei per auto-definirsi ma dagli altri per discriminarli. Attraverso la mostra vogliamo provocare una reazione proprio su questo: il paradosso del sangue, che unisce e divide ed è uguale per
tutti gli esseri umani”.
Rachel Silvera
Pagine Ebraiche, gennaio 2016
(30 dicembre 2015)