In ascolto
Yiddish a Friburgo
Friburgo in Brisgovia, nel cuore della Foresta Nera, è una bella cittadina dai palazzi in tinta pastello, che nel periodo natalizio si anima di luci, mercatini e musicisti di strada. Ci vengo spesso per motivi di famiglia e conosco la nuova sinagoga, un edificio in cemento piuttosto anonimo, costruito dopo la guerra per desiderio di quei quindici ebrei che erano riusciti a fare ritorno in città. Oggi la comunità conta circa 700 membri e la koiné è il russo, come succede in altre città tedesche tipo Norimberga, in cui la vita ebraica è cresciuta soprattutto grazie alle immigrazioni dalla Russia a seguito della caduta del Muro. Friburgo non è certo una meta gettonata nei Jewish Tours, perché almeno in apparenza i punti di interesse sono pochi, a parte la nuova comunità: l’università, memoria di emeriti studiosi come Emanuel Lévinas e la targa in bronzo in ricordo di quella sinagoga, figlia dell’Emancipazione, distrutta con la Kristallnacht.
Ma stavolta ho scoperto un luogo nuovo, un vero e proprio tesoro di musica ebraica, ovvero il Deutsches Volksliedarchiv (DVA), che possiede una collezione molto ricca di canzoni popolari raccolte nel corso del XX secolo, dall’apice del modernismo ebraico fino alla riscoperta della musica folk ebraica in Germania negli ultimi anni del secolo. Ma l’archivio è importante soprattutto per lo studio della canzone politica, fondamentale per comprendere quel delicato passaggio degli anni ’60, quando la Germania comincia a confrontarsi con il proprio passato e gli studenti universitari sviluppano un dibattito importante su nazionalsocialismo e antisemitismo.
Tra i vari interpreti del genere uno dei più celebri è senz’altro Peter Rohland, cantante, autore e ricercatore, nato a Berlino e morto a Friburgo a soli 33 anni per emorragia cerebrale. Rohland è anche il primo tedesco non ebreo a cantare le vecchie canzoni in yiddish affiancandole al repertorio popolare; affascinato da una cassetta di Theodore Bikel, incide diversi brani per una radio, ma nessuna casa discografica accetterà mai di produrre un LP.
Cantare in yiddish all’epoca aveva molti significati: certo per alcuni era divertente e aveva un che di esotico, ma per molti costituiva un mezzo di confronto e di conoscenza di quel “mondo ebraico” il cui vuoto pesava come un macigno. Come scrive il musicologo Wolfgang Martin Stroh: “Ogni canzone yiddish era potenzialmente una provocazione per la generazione dei nostri padri, era una dimostrazione politica”.
Ma cantare in yiddish significava anche impiegare la musica per denunciare l’oppressione e protestare, quale che fosse la situazione storico-sociale in Germania o altrove nel mondo e non a caso negli stessi anni attinsero al repertorio i grandi cantanti simbolo dell’America che marciava per i diritti civili, come Joan Baez, Paul Robeson e Pete Seeger.
Consiglio d’ascolto: Peter Rohland
Maria Teresa Milano
(31 dicembre 2015)