La signorina Levi

Sara Valentina Di PalmaI portacandele di Shabbat. La brocca per la Netillat Yadaim. Il calice d’argento per il Kiddush. La tovaglia gialla ricamata, e la sopratovaglia bianca. Suppellettili davanti alle quali decine di persone passano quasi ogni giorno visitando il Museo Ebraico di Firenze, chi distrattamente, chi soffermandosi ad osservare la tavola apparecchiata per lo Shabbat.
Alcuni di questi oggetti rituali appartenevano alla signorina Levi, cui è dedicato nella Stanza della Memoria il pannello sull’assunzione della falsa identità dall’inizio di quella che Michele Sarfatti ha definito ‘persecuzione delle vite’ dopo quella dei diritti: dalle leggi razziste all’essere braccati, costretti a nascondersi per sottrarsi alle deportazioni, e altrimenti inviati perlopiù direttamente a Birkenau.
Trovo la signorina Levi un’affascinante figura d’altri tempi. Intanto, si unì ai partigiani. Si innamorò di un altro resistente, ma la famiglia di lei ne osteggiò l’unione. Era tutta d’un pezzo, la signorina Levi: o lui o nessuno. Quindi nessuno. Morì molto anziana e sempre battagliera, sicura che qualcuno la dovesse convincere del perché per Pesach non potesse mangiare pane e matzà, insomma ad un pasto che si rispetti il pane non può mancare no?
Ripenso a lei sentendo raccontare del caso (esiste il caso?) in base al quale in un giorno di luglio, a quarantacinque anni di distanza, in un immenso aeroporto americano mia madre scoprì da due anziane signore liguri, conosciute nell’attesa del check in, la sorte della sua balia cui a tre anni dovette dire addio. Assunta si era sposata per procura con un esule antifascista che, scappando, le aveva promesso di sistemarsi e di tornare a prenderla. Non era tornato, ma si era in effetti sistemato, e dall’esilio americano, a guerra ormai finita, le aveva chiesto di sposarlo e di partire per raggiungerlo.
Dopodiché quella bambina che era mia madre non ne aveva saputo più nulla fino, appunto, all’incontro con due compaesane della tata dalle quali aveva appreso della vita americana di Assunta: aveva lavorato sodo con il marito conseguendo un certo successo come vivaista, e purtroppo non avendo avuto figli non avevano potuto lasciare a nessuno l’attività.
Assunta era partita dopo aver atteso il fidanzato per anni, sicura che prima o poi lo avrebbe ritrovato. La signorina Levi aveva un solo amore, che non avrebbe mai sostituito per accontentare i genitori. In un’epoca in cui di autodeterminazione femminile non si parlava ancora, non male.

Sara Valentina Di Palma

(31 dicembre 2015)