La battaglia di Victor Séjour

Schermata 2016-01-01 alle 12.45.54Il 22 dicembre 1859, a Parigi, la prima rappresentazione della pièce teatrale dello scrittore Victor Séjour, La tireuse de cartes, suscitò viva curiosità e una vasta affluenza di pubblico. Alla prima assistettero anche l’Imperatore Napoleone III con l’imperatrice Eugenia, mentre girava la voce che a scrivere la pièce avesse dato mano anche il capogabinetto dell’Imperatore, Jean-François Constant Mocquard. Victor Séjour era uno scrittore teatrale assai noto nella Francia dell’epoca. Mulatto, nato ad Orléans da genitori liberi e forniti di mezzi, si era trasferito a Parigi giovanissimo e lì aveva intrapreso la sua carriera letteraria. Un suo racconto intitolato Il mulatto, un duro atto d’accusa contro la schiavitù, aveva avuto grande successo a Parigi nel 1837 ed era stata la prima opera composta da uno scrittore “di sangue misto” sulla questione della schiavitù. Nella Parigi di quegli anni, il colore della pelle non rappresentava un problema, basti pensare al successo di un altro scrittore di sangue misto come Alexandre Dumas e al dibattito vivace sulla questione della schiavitù in America, che aveva cominciato a divenire urgente alla metà degli anni Cinquanta e che proprio nel 1861 avrebbe dato vita alla terribile guerra di secessione. La pièce rappresentata in quell’occasione non prendeva però spunto come la precedente dalla questione della schiavitù, ma da una vicenda recente, accaduta in Italia, nella Bologna del 1858, il rapimento “legale” del bambino ebreo Edgardo Mortara da parte dell’Inquisizione romana in seguito al suo presunto battesimo. Séjour si schierava ancora una volta, come già precedentemente, sul fronte del teatro “impegnato”, prendendo questa volta l’iniziativa di una battaglia non in favore della libertà degli schiavi ma di quella dei diritti degli ebrei oppressi dalla politica del papato. L’opera di Séjour fu la prima opera letteraria a porre al suo centro la questione del piccolo Edgardo Mortara, un caso che suscitò in quegli anni l’attenzione dell’intera Europa ed ebbe non poca parte nello schierare contro la Chiesa l’opinione pubblica illuminata europea, facilitando la caduta del potere temporale dei papi. Tradotta in molte lingue, fu rappresentata anche in Italia e nella stessa Roma, ancora sotto il dominio della Chiesa, al teatro Quirino, dove dette occasione a manifestazioni di protesta antipapali tanto da essere sospesa.
Figlio di una famiglia ebraica bolognese di estrazione borghese, Edgardo Mortara fu sottratto ai suoi cari a sei anni dalle guardie pontificie, dopo che una domestica della casa, già licenziata, aveva denunciato all’Inquisitore Feletti di aver battezzato di nascosto il piccolo quando questi aveva due anni credendolo in pericolo di vita. Nonostante le vivaci proteste della famiglia, il bambino fu portato a Roma alla Casa dei Catecumeni. Di lui si interessò personalmente il papa Pio IX, che lo considerò come una sorta di figlio spirituale. La città di Bologna faceva ancora parte, nel 1858, dello Stato pontificio. Sarebbe entrata a far parte dello Stato italiano solo nel 1860, con la seconda guerra d’Indipendenza e il plebiscito che univa l’Emilia-Romagna al Regno di Sardegna, divenuto nel 1861 Regno d’Italia. In quegli anni, dunque, la Francia napoleonica e i Savoia erano alleati nell’opera di unificazione dello Stato italiano, anche se poi sarebbe stato proprio Napoleone III a trasformarsi in garante dell’esistenza dello Stato Pontificio e ad impedire fino al 1870, quando fu deposto in seguito alla guerra franco-prussiana, la caduta del potere temporale dei papi. Non appare quindi strano che l’opinione pubblica liberale della Francia del 1859 appoggiasse la campagna internazionale di denuncia del ratto del piccolo Edgardo e che l’Imperatore suggellasse fortemente, con la sua presenza alla prima della pièce di Séjour, questa scelta politica.
Ma perché il piccolo era stato sottratto alla famiglia? Secondo il diritto canonico vigente nello Stato Pontificio, un battesimo clandestino compiuto invitis parentibus, cioè contro la volontà dei genitori, era dal punto di vista penale un atto illegale, meritevole di punizione, ma dal punto di vista canonico era tuttavia un sacramento valido. Di qui la scelta di sottrarre il bambino, considerato cristiano, all’influenza dei famigliari ebrei e di porlo in un luogo in cui potesse essere allevato nella religione cristiana, Quest’ultima era tuttavia solo una scelta della Chiesa, giustificata dalle circostanze, non una prescrizione del diritto canonico. In molti altri casi, prima del piccolo Mortara, ai bambini fatti cristiani in tal modo era stato concesso di restare in famiglia, a patto che fosse osservata la loro educazione cristiana, una missione difficile ma non impossibile. Tale non fu la scelta nel caso Mortara. Il piccolo restò a Roma, dove fu avviato agli studi religiosi, Successivamente, entrò nell’Ordine dei Canonici Regolari. Dopo la presa di Roma, nel 1870, fu nascosto e inviato all’estero. Svolse un’intensa attività conversionistica e passò gli ultimi anni della sua vita in un monastero del suo Ordine, presso Liegi. Rivide solo molti anni dopo la sua famiglia, con cui intrattenne rapporti pur restando fermissimo nella religione cattolica e tentando anzi di convertire i suoi parenti. Morì nel suo convento belga nel 1940, pochi mesi prima della conquista nazista del Belgio. È interessante notare che per i nazisti era un ebreo. Se fosse vissuto avrebbe forse condiviso la sorte di Edith Stein, cioè la deportazione ad Auschwitz.
Intanto, subito dopo la sua sottrazione alla famiglia, il suo caso fece un grande scalpore. Il mondo liberale tutto si schierò contro la Chiesa romana, che rapiva bambini in spregio ai diritti naturali della famiglia. I Mortara si batterono con coraggio, chiedendo l’aiuto degli ebrei europei e del mondo liberale. Il caso divenne un simbolo del conflitto tra l’oppressione degli ebrei attuata dalla Chiesa di Roma, con i suoi ghetti ancora in vigore, e le libertà individuali e civili. Allo scalpore suscitati dal caso Mortara non è estranea la nascita, nel 1860 a Parigi, dell’Alliance Israélite, un’associazione internazionale nata per difendere i diritti conculcati degli ebrei. I governi europei si schierarono a favore della famiglia Mortara e chiesero invano a Pio IX la liberazione del bambino. Sir Moses Montefiore, il filantropo che fu per quarant’anni il maggior leader delle comunità ebraiche inglesi, cercò invano nel 1859 di ottenere udienza a Roma dal Papa per perorare la causa del piccolo Mortara. Pio IX rifiutava di discutere la questione e respingeva perfino i memoriali dei canonisti, richiesti come d’uso di un parere da parte della Comunità ebraica romana, che gli prospettavano i precedenti giuridici della possibilità di affidare il bambino alla famiglia d’origine.
Il libro di Elèna Mortara, studiosa di letteratura angloamericana e docente all’Università di Tor Vergata, apparso in inglese sotto il titolo Writing for justice. Victor Séjour, the kidnapping of Edgardo Mortara, and the age of transatlantic Emancipations (Dartmouth College Press, 2015) affronta questa vicenda analizzando in particolare il percorso letterario e di impegno civile di Séjour attraverso un’accurata analisi critica, storica e letteraria, delle sue opere. In realtà, pur partendo dall’analisi di La tireuse de cartes, cioè volendo porre al centro del suo discorso il caso Mortara e l’immagine che del caso ebbe la cultura europea del tempo, lo studio della Mortara offre una visione d’insieme particolarmente interessante dell’età dell’emancipazione, cioè dell’età, intorno alla metà del secolo XIX, in cui il problema dell’emancipazione dalle catene della schiavitù, della subordinazione, del disprezzo si presentò urgente per gli schiavi neri delle Americhe, per gli ebrei d’Europa, per le donne. Per tutti loro, il progetto di emancipazione rappresentò un momento importante di consapevolezza e di rinnovamento, un impegno civile a cui chiamare intorno a sé a raccolta i liberali di tutta Europa (tranne che nel caso delle donne, dove la questione si rivelò più difficile, come la storia dei primi movimenti emancipazionisti ci insegna). Elèna Mortara coglie in Séjour, mulatto americano di cultura francese e scrittore di successo, colui che ha saputo esprimere nelle sue opere l’anelito alla libertà degli ebrei e dei neri insieme, e fors’anche un poco delle donne, a stare all’interessante analisi che l’autrice fa dei cambiamenti di genere attuati da Séjour nella pièce, per cui il piccolo Edgardo cambia sesso e diviene una bambina, mentre anche il ruolo dominante che nella realtà storica ha avuto il padre di Edgardo nel battersi per riavere indietro il figlio è assunto in teatro dalla madre. Ciò nonostante, la scelta finale di Séjour resta insoddisfacente per Elèna Mortara. Cattolico, sia pur cattolico liberale, Séjour condanna il ratto del piccolo Mortara ma lascia cattolica, sia pur in seno alla famiglia d’origine, la protagonista della sua pièce. Forse per motivi di censura o di autocensura, forse per convinzione, Séjour non porta fino alle sue logiche conseguenze la sua battaglia e la condanna del ratto del bambino non diventa ritorno alla religione conculcata degli ebrei.
Elèna Mortara non parla solo come studiosa. Parla infatti anche di sé e della sua famiglia, dal momento che Edgardo Mortara era il fratello della sua bisnonna. Una storia di famiglia quindi, da lei succhiata col latte materno, che ha lasciato tracce profonde nella sua formazione, per poi trovare la strada della catarsi non semplicemente in un’ennesima storia del caso Mortara, ma in uno studio di ampio respiro, in cui le sue memorie famigliari si saldano al suo percorso di studiosa e in cui il caso Mortara trova il suo posto in quell’era tormentata e nonostante tutto ancor felice dell’Europa, prima che la cultura della razza ne trasformasse l’anima e prima che le guerre e il nazismo ne devastassero gli spazi fisici e mentali. Una visione insomma di ampio respiro, che ci offre una prospettiva inusuale e innovativa del caso Mortara e che ci proietta in un’età in cui si poteva battersi per la libertà dalla schiavitù ed insieme per l’emancipazione degli ebrei. In cui la lotta per la libertà riguardava tutti gli oppressi, tutti coloro che erano ridotti in schiavitù, tutti coloro a cui le leggi negavano i diritti fondamentali di ogni essere umano.

Anna Foa, storica

Pagine Ebraiche gennaio 2016

(1 gennaio 2016)