Peter Cameron

Valerio FiandraSta sospeso fra ironia e tragedia il fascino della storia che Peter Cameron racconta in questo suo secondo libro, proprio come era una questione d’ironia e lirismo il primo. In Quella sera dorata (Adelphi 2006), la curiosa famiglia allargata che si va formando via via – con l’odiosa ma pratica fidanzata-sposa, la consolabile vedova dello scrittore morto, la sua amante pittrice, i due amanti gay e la ‘bambina’ – metteva in scena una specie di commedia sexy sudamericana. In Un giorno questo dolore ti sarà utile (Adelphi 2010) – che ho riletto di recente, e dal quale è stato tratto un film nel 2011 – la scena è newyorkese: il clima è condizionato dai climatizzatori, così come la famiglia upper class è condizionata dalla noia che, insieme alla Città, è la vera protagonista.
James non vuole andare all’Università, sua sorella Gillian (pronunciate la G dura se volete compiacerla) non vuole sembrare immatura, mammina vive sulle nuvole, papino fra bistecche e pregiudizi, il nero seduttore è più adolescente di James… Solo Nonna e Casa in Campagna sembrano sapere quel che fanno, ma la prima è vecchia, la seconda un miraggio.
In un saggio del 2002, L’aperto. L’uomo e l’animale (Bollati Boringhieri) Giorgio Agamben, muovendo da una preziosa, perturbante miniatura biblica del XIII° secolo, apre uno squarcio di duratura memoria sul tema dell’umanità e della animalità dell’uomo.
(non posso non segnalarvi, a questo proposito, anche Teologia degli animali, Morcelliana editore, di Paolo de Benedetti, cui la mia riconoscenza e affetto non è misurabile).
Inseguendo, scomponendo e ritessendo il pensiero di anticipatori e flâneur (da Linneo a Bataille, da Haeckel a Kojève, e soprattutto dal Barone Jakob von Uexkull a Martin Heidegger), il filosofo italiano mette in gioco la posta della fecondità della noia, quando ben utilizzata.
Ora. Qui, del libro di Agamben posso solo consigliare la lenta degustazione, e basta.
(Anzi no. Posso, devo dirvi almeno che ogni persona che si voglia dire consapevolmente moderna dovrebbe passare qualche giorno in compagnia delle sue ottanta pagine: la faccenda è molto meno marginale di quel che può sembrare a prima vista. Il politico e il civile, la stessa idea di come stare al mondo è indagata).
Ma se lo aveste già letto, allora il libro di Cameron vi si potrebbe squadernar davanti come un esempio ridicolo della radicale noia che avvolge e confonde, come nebbia fitta, questo inizio del terzo millennio, e delle sue letali conseguenze.
A quale dea rispondono infatti i protagonisti di Un giorno questo dolore ti sarà utile se non a quella dello Sbadiglio, che – come la nuvola-yiddish mame di Woody Allen – avvolge e domina, con il suo incommensurabile Yawn, l’apparentemente insonne, ma in realtà Bell’Addormentata New York?
John vuole l’amore eterno: e lo cerca sul web.
Mammina non vuol invecchiare: e si sposa per alimentare la propria distruttività.
Papino è un vero uomo: e si fa un lifting.
Gillian vuole esser un’intellettuale e una vera dura: e dopo la ‘lezione’ viene usata e gettata via.
Resta la Nonna. Altra qualità del legno, direbbe la mia.
E James, che nel suo non fare è molto meglio orientato dei suoi ‘fichissimi’ amici e parenti. Resta soprattutto la Casa in Campagna, simbolo di un altrove-altro-quando che non c’è più, SE c’è mai stato.
Ed è per questo che a me James pare un Holden Caulfield 2000, e Un giorno questo dolore ti sarà utile una specie di Giovane Holden revisited.
Intendiamoci: Cameron non è Salinger, ma certi passi della sua prosa in questo romanzo sono un bisturi. Penso all’incubo di Washington, agli sguardi sull’Hudson, al percorso di avvicinamento alla Casa di Nonna….
E certe analogie, certi calchi, certe coincidenze… ( ah, il bassotto e la bambina, felici!!!), mi suggeriscono di suggerirvi una lettura incrociata e investigativa.
Ecco, l’ho fatto di nuovo: magari uno arriva qui, vuol semplicemente sentirsi dire se il libro è gradevole, e se ne va (ammesso sia arrivato fin qua) con due sole chiare idee in testa. Primo: è una pizza. Secondo: col fischio che lo compro.
No, pazienti amici miei: il libro è (anche) gradevole, spiritoso, ben tradotto da Giuseppina Oneto.
Ed è questa sua anfibità, fra gradevolezza e profondità, che me lo fa consigliare sia ai superficiali – che siano benedetti – sia ai maniacali. Ah, portatevi in poltrona un sacchetto di autoironia, quando lo leggerete: vi potrebbe esser d’aiuto, a partire dal titolo…

Valerio Fiandra

(14 gennaio 2015)