Ci attendono i frutti più dolci
La terza visita di un Pontefice alla sinagoga di Roma rappresenta certo qualcosa di molto diverso e di assai più significativo del caloroso rinnovo di una bella consuetudine. Molti segnali lasciano intendere che il ripetersi di questo evento non comporti il rischio di sbiadire nella ripetizione formale, ma al contrario segni il tempo di un lungo e difficile percorso che continua a compiersi sulla strada del dialogo.
Le tre diverse personalità dei Papi accolti nel più rappresentativo tempio ebraico italiano, aggiunge certo un carattere distintivo a ognuno di questi incontri. Ma quello che ora emerge con chiarezza, proprio nell’occasione di questa terza visita, è come i diversi incontri si rivelino utili a scandire il tempo del dialogo e a segnarne il divenire.
L’unità di misura costituita dall’elaborazione dei documenti teologici finisce così per trovare un raccordo con i punti fermi segnati da questi gesti di fraterna amicizia.
Molti hanno già constatato la significativa crescita nelle relazioni ebraico-cristiane che ci separa dalla svolta fondamentale della dichiarazione Nostra aetate. Ma è ora possibile contare anche i passi intercorsi dalla stagione della prima visita
Non è necessaria una specifica competenza teologica, per vedere che questa segna il ritmo della nostra amicizia, ma in un certo modo anche quello della nostra vita.
Nell’aprile del 1986, quando si preparava il primo incontro, il rabbino capo di Roma Elio Toaff mi annunciava in un’intervista “Una rivoluzione radicale, una rinuncia alla tentazione di emarginare il popolo ebraico, un gesto che farà nascere rapporti nuovi fra due fedi che hanno le stesse, comuni radici storiche. Nasce un nuovo rapporto, su un piede di parità e di collaborazione. E se alcuni ebrei – concludeva allora – possono temere forse il pericolo di una certa attività missionaria da parte della Chiesa, diciamo si tratta di un rischio che, se mai esistesse, crediamo di essere in grado di poter scongiurare”. Le sue calde parole insegnavano che non può esserci dialogo senza assumersi rischi e responsabilità, senza vincere le incertezze, senza una solida consapevolezza della propria identità che deve tenerci al riparo da pericolose confusioni.
Nell’occasione della visita di papa Ratzinger avevo chiesto al vignettista del giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche di elaborare due disegni da pubblicare uno alla vigilia e uno alla conclusione della sua venuta. Due viaggi per attraversare il Tevere e raggiungere la sponda opposta, quella che si trova di fronte chi guarda Roma dalle mura del Vaticano e chi guarda la stessa città dal punto di osservazione del quartiere ebraico. Le vignette, cariche di simbologie, rappresentavano in modi diversi un viaggio avventuroso, un passaggio difficile. Furono riprese dalla stampa nazionale e internazionale e i colleghi in redazione ricordano ancora divertiti come vi furono troupe televisive che chiesero il nostro consiglio per riprendere il Tevere dalla medesima precisa prospettiva, un certo cantuccio dell’isola Tiberina, che offriva la stessa visuale della vignetta.
Quei disegni costituiscono, assieme alle parole di incoraggiamento del rabbino Toaff, un caro ricordo, eppure, riguardandoli a distanza di appena cinque anni, appaiono già lontani nel tempo, perché la contagiosità dell’amicizia non ha fatto altro che restringere il fiume e avvicinarne progressivamente le sponde, rendendo raggiungibili, grazie ai tanti meriti dei suoi protagonisti, mondi diversi senza inciampare nelle sovrapposizioni.
Meglio allora pensare che le emozioni professionali che accompagnarono le visite precedenti restino vive, ma non replicabili, e che ad esse si possa aggiungere questo alto onore di rivolgersi al lettore dell’Osservatore romano dopo essere stati onorati di ospitare sulle pagine dell’ebraismo italiano il pensiero del direttore dell’autorevole testata vaticana. I grandi miracoli saranno ancora da compiersi, ma anche questo piccolo gesto, che segna la volontà di comprendersi e che un tempo sarebbe stato impensabile, è un bel segno di conforto nei nostri tempi difficili e incerti.
Ma la terza visita, l’avvenimento della presente stagione, oltre a farci misurare il progresso conquistato, ci offre anche l’occasione di guardare avanti. Se la persecuzione, l’emarginazione, la dottrina del disprezzo, la teorizzazione della conversione di massa, sembrano ormai relegati un passato complesso e doloroso, cosa possiamo chiedere parlando al tempo futuro? Cosa possono in particolare offrire gli ebrei di oggi rivolgendosi al mondo cattolico e cosa possono sperare dai propri interlocutori?
Sgombrato il campo dai detriti della diffidenza e del sospetto, sarebbe forse azzardato sostenere che la strada del dialogo appare ora tutta in discesa, ma certamente siamo autorizzati a sperare che della nostra amicizia ci attendano i frutti più dolci. Conquistata la stagione dell’accettazione, possiamo aprirci alla gioia della autentica conoscenza reciproca. E credo che il mondo ebraico nella sua estrema complessità e diversificazione interna faccia bene a chiedere ora di essere non solo accettato, ma anche compreso per quello che effettivamente è.
Il dialogo, come è stato giustamente rilevato da più parti, si è svolto necessariamente fra realtà asimmetriche. E non solo per la ridotta dimensione numerica della popolazione ebraica nel mondo. La maggiore differenza fra gli interlocutori è che il mondo ebraico ha la vocazione di rappresentare una possibilità alternativa di leggere la vita e il mondo. Non un’idea contrapposta, quanto piuttosto un linguaggio, una metodologia del pensiero, un punto di osservazione del tutto differente.
Si direbbe in effetti che il mondo ebraico non possa offrire all’interlocutore un messaggio univoco, un corrispondente unico, una gerarchia facilmente identificabile. Ma al contrario, nella dialettica interna fra gli elementi indispensabili di Israele e della Diaspora, fra i diversi modi di intendere la Legge e la libera scelta individuale, nelle tante modulazioni identitarie che non possono essere tutte facilmente ricomprese nel quadro istituzionale, nell’ancestrale metodologia della discussione e della conoscenza, in questa complicazione si rinnova la sfida di ascoltare molte voci per ricomporle in una visione infine coerente. Ascoltare la complessità che il mondo ebraico esprime può essere contemporaneamente faticoso ed entusiasmante, ma soprattutto comporta la responsabilità di evitare infine fraintendimenti e confusioni. E i cardini della lunga esperienza dell’ebraismo italiano possono rappresentare una bussola preziosa.
Due millenni di storia hanno insegnato che è giusto accogliere tutti e ascoltare tutti, ma senza mai dimenticare che le metodologie interpretative della Legge elaborate dal rabbinato ortodosso restano insostituibili. E hanno insegnato che il legame assoluto, incrollabile con la realtà di Israele non può essere indebolito o reciso in alcun modo.
Accettare questa differente maniera di essere, perseguire l’amicizia sincera e l’autentico desiderio di conoscere l’altro senza prevaricarlo, e continuare a crescere insieme percorrendo lo stesso cammino senza cedere alla tentazione della sostituzione e della conversione, da una parte, e dell’affrettata elaborazione dettata dall’ansia di farsi meglio intendere, dall’altra. Sono questi in definitiva i nuovi orizzonti da conquistare, senza mai cedere il passo alla stanca ripetizione, senza mai piegarsi al vuoto gesto formale, per far sì che le innumerevoli visite e i tanti incontri che ancora ci attendono continuino a rinnovarsi e a palpitare di autentica, incessante emozione.
Guido Vitale, L’Osservatore Romano
(15 gennaio 2016)