“Ebrei e cristiani, il dialogo
lo si costruisce per gradi”
“Questo nuovo incontro ha due significati. Da una parte dare continuità alla storica visita di Wojtyla e alla più recente conferma di Ratzinger. Dall’altro rilanciare un modello di convivenza pacifica tra le religioni in un momento in cui segnali che vanno esattamente nella direzione opposta rischiano di travolgere l’insieme delle nostre società e i valori su cui si fondano”. È la seconda volta che il rav Riccardo Di Segni accoglie un papa in sinagoga. La terza volta in assoluto invece che un pontefice varca la soglia del Tempio Maggiore. Cosa è cambiato rispetto alle precedenti visite? Quali gli specifici elementi di novità apportati in questa ultima circostanza? Per il rabbino capo sarebbe fuorviante parlare soltanto di una consolidata e amichevole abitudine che si è rinnovata. Più corretto parlare di un’occasione più significativa di tante altre per modulare sfide e orizzonti che appaiono sempre più irrinunciabili. “Attraversiamo un’epoca difficile e complessa. Un’epoca in cui si avverte più che mai l’esigenza di parlare in modo chiaro e di agire coerentemente. Le religioni – dice – non possono e non devono sottrarsi a questo compito”.
La visita è stata annunciata nel solco delle celebrazioni del cinquantenario della Dichiarazione Nostra Aetate. Mezzo secolo di impegno, confronto, coraggio. Da una parte e dall’altra. I risultati raggiunti sono significativi?
In generale direi di sì, in particolare in campo educativo i motivi di soddisfazione sono molti. Se oggi è venuto meno un certo insegnamento al disprezzo antiebraico piuttosto frequente in ambito cattolico lo si deve infatti anche e soprattutto al diverso approccio sancito nel documento conciliare. Le cose sono cambiate radicalmente e sarebbe una grave miopia non rendersene conto. Attenzione comunque a non lasciarsi andare a euforia e trionfalismi ben oltre il dovuto: la strada da fare è ancora molta. Serve prudenza, come sempre nella vita, anche se si può e si deve essere ottimisti.
Questo papato ha impresso in qualche modo una svolta nei rapporti?
Bergoglio ha dimostrato in più circostanze la sua amicizia e la sua vicinanza al mondo ebraico, anche attraverso l’incontro con numerose delegazioni politiche e rabbiniche internazionali che gli hanno fatto visita in questi tre anni di pontificato. Scherzando, si potrebbe dire che da quelle parti ci si dovrebbe adoperare perché, tra tante chiese e luoghi di culto, si trovi lo spazio anche per una sinagoga. Le ripetute presenza ebraiche sembrerebbero suggerire questa necessità.
Si è trattato di incontri che hanno lasciato il segno?
Quella di Bergoglio con gli ebrei è una azione fortemente incisiva, che ha consolidato una tradizione e un’apertura che erano già proprie dei suoi predecessori. Non parlerei quindi di un particolare valore aggiunto, ma anche in questo caso di una conferma. Le relazioni stesse tra ebrei e cristiani, la cui evoluzione è oggi in senso positivo, va interpretata e letta come un fatto graduale. Ogni cosa ha il suo tempo. Ogni situazione è peculiare e richiede un’attenta verifica e un confronto sincero. Soltanto così il rapporto potrà continuare a progredire e a dare i suoi frutti.
All’interno di questa gradualità esistono però circostanze o iniziative che hanno un peso più rilevante?
Le visite dei papi in sinagoga appartengono a questa categoria, anche per la risonanza mondiale che esse immediatamente assumono. In questo senso Roma e la sua Comunità ebraica si confermano una porta che diventa difficile ignorare se davvero si vuole dare concretezza. Roma ebraica e Roma cristiana: due poli ravvicinati, due mondi in relazione da secoli. Nel bene e nel male. Il loro è un incontro inevitabile determinato da ragioni non solo di vicinanza geografica. C’è molto di più. E questa visita ne è, per la terza volta, una chiara testimonianza.
Testimonianze importanti sono anche i numerosi testi e i numerosi impegni assunti sull’altra sponda del Tevere in questi mesi. L’ultimo dei quali il documento licenziato in dicembre dalla Pontificia commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo in cui si enuncia il particolare legame con gli ebrei e la rinuncia alla conversione. Che impressione ha ricavato dalla sua lettura?
Si tratta di un testo rilevante sotto molteplici punti di vista. Un documento che non può essere ignorato e che richiede la massima attenzione e una articolata e consapevole risposta da parte del mondo ebraico.
A parte alcune eccezioni, non le sembra che questa risposta stia tardando ad arrivare?
All’esterno può apparire così, ma la situazione è diversa. C’è infatti bisogno che i problemi siano approfonditi in modo adeguato, come sta facendo ad esempio una Commissione di rabbini europei, di cui mi onoro di far parte, che è al lavoro da alcuni mesi sul tema delle relazioni con il mondo cattolico. Posso garantire che il confronto è quotidiano e appassionante e che i risultati saranno all’altezza delle sollecitazioni che ci sono giunte.
Non crede comunque che ci sia una certa lentezza in questi processi, anche a confronto con una élite cattolica che ha imparato a comunicare con immediatezza e tempestività?
A verificarsi è quella che definirei l’espressione dell’asimmetria del dialogo. Inutile girarci attorno: i numeri e le forze in campo sono diverse. La Chiesa rappresenta oltre un miliardo di persone nel mondo, noi siamo soltanto pochi milioni. E poi ci sono anche altre ragioni, riconducibili principalmente a queste sfere: organizzativa, gerarchica, dottrinale, nel rapporto storico. Una rapida analisi delle stesse porta alla conclusione che queste lacune, se così vogliamo chiamarle, sono inevitabili.
In un dialogo che si vuole paritario gli ebrei non rischiano così di apparire soltanto come dei soggetti passivi?
È evidente che il rischio esiste, ma la storia recente ci viene in soccorso dimostrandoci che può non essere così. Si devono infatti all’impegno e al nostro attivismo alcuni importanti successi, come il chiarimento sul popolo ebraico che è “popolo di Dio” e l’allacciamento di relazioni diplomatiche tra Vaticano e Stato di Israele. Risultati cui non si sarebbe giunti senza un pressing, senza una nostra richiesta di chiarimento.
Nelle stesse ore in cui la pontificia commissione divulgava gli esiti del suo lavoro, diventava di dominio pubblico un testo firmato da diversi rabbini che si dichiarano ortodossi in cui si interpreta la nascita del Cristianesimo come componente del un piano divino per la comune redenzione del mondo. Che idea si è fatto?
È un testo che corre il rischio di essere presuntuoso, anche perché dichiara l’intenzione dei suoi firmatari di farsi interpreti con certezza della volontà del “nostro Padre in cielo”. Sul piano squisitamente teologico sono diverse le espressioni e i riferimenti non solo dubbi, ma decisamente avventati. La dimostrazione che con la fretta spesso si va poco lontano o, ancora peggio, si possono fare dei danni.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked