La stagione dei frutti più dolci
Nell’aprile del 1986, alla vigilia della prima visita di un papa alla sinagoga di Roma, il rabbino capo della Capitale Elio Toaff mi annunciava in un’intervista “Una rivoluzione radicale, una rinuncia alla tentazione di emarginare il popolo ebraico, un gesto che farà nascere rapporti nuovi fra due fedi che hanno le stesse, comuni radici storiche. Nasce – aggiungeva il Rav – un nuovo rapporto, su un piede di parità e di collaborazione.
E se alcuni ebrei possono temere forse il pericolo di una certa attività missionaria da parte della Chiesa, diciamo si tratta di un rischio che, se mai esistesse, crediamo di essere in grado di poter scongiurare”.
Le sue calde parole insegnavano che non può esserci dialogo senza assumersi rischi e responsabilità, senza vincere le incertezze, senza una solida consapevolezza della propria identità che deve tenerci al riparo da pericolose confusioni.
Che in tempi di pace, per resistere a un’ipotetica minaccia di assimilazione, gli ebrei devono cercare ancoraggio nella loro solidità identitaria, prima ancora che rassicurazioni all’esterno.
Nell’occasione della visita di papa Ratzinger avevo chiesto al vignettista del giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche, di elaborare due disegni da pubblicare alla vigilia e alla conclusione della sua venuta.
Due viaggi per attraversare il Tevere e raggiungere la sponda opposta. Le vignette, cariche di simbologie, rappresentavano in modi diversi un passaggio difficile.
Quei disegni costituiscono, assieme alle parole di incoraggiamento del rabbino Toaff, un caro ricordo, eppure, riguardandoli a distanza di appena cinque anni, appaiono già lontani nel tempo. Credo che un’idea del genere non sarebbe oggi altrettanto attuale, né renderebbe giustizia alla realtà che abbiamo sotto gli occhi, perché la contagiosità dell’amicizia non ha fatto altro che restringere il fiume e avvicinarne progressivamente le sponde.
Emozioni vive, ma non replicabili, cui si aggiunge ora il piacere di aver ospitato su queste pagine il pensiero del direttore dell’Osservatore romano. Una cortesia che l’autorevole testata vaticana ha ricambiato portando al mondo cattolico la mia modesta testimonianza di giornalista
ebreo.
E un tema ripreso nel corso della lunga diretta televisiva dedicata al terzo incontro, che ha consentito alla redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche di parlare dal proprio punto di osservazione a milioni di telespettatori.
I grandi miracoli saranno ancora da compiersi, ma anche questi piccoli gesti, che mettono in luce la volontà di comprendersi e che un tempo sarebbero stati impensabili, sono un bel segno di conforto nei nostri tempi difficili e incerti.
Ma la terza visita, l’avvenimento della presente stagione, oltre a farci misurare il progresso conquistato, ci offre anche l’occasione di guardare avanti.
Se la persecuzione, l’emarginazione, la dottrina del disprezzo, la teorizzazione della conversione di massa, sembrano ormai relegati un passato oscuro e doloroso, cosa possiamo chiedere parlando al tempo futuro?
Sgombrato il campo dai detriti della diffidenza e del sospetto, sarebbe forse azzardato sostenere che la strada del dialogo appare ora tutta in discesa, ma certamente siamo autorizzati a sperare che della nostra amicizia ci attendano i frutti più dolci. E credo che il mondo ebraico nella sua estrema complessità faccia bene a chiedere ora di essere non solo accettato, ma anche compreso per quello che effettivamente è.
Ascoltare la complessità che il mondo ebraico esprime può essere contemporaneamente faticoso ed entusiasmante, ma soprattutto comporta la responsabilità di evitare infine fraintendimenti e confusioni.
I cardini della lunga esperienza dell’ebraismo italiano possono rappresentare una guida preziosa. Due millenni di storia hanno insegnato che è giusto accogliere tutti e ascoltare tutti, ma senza mai dimenticare che le metodologie interpretative della Legge elaborate dal rabbinato ortodosso restano insostituibili.
E hanno insegnato che il legame assoluto, incrollabile con la realtà di Israele non può essere indebolito o reciso in alcun modo.
Accettare questa differente maniera di essere, perseguire l’amicizia sincera e l’autentico desiderio di conoscere l’altro senza prevaricarlo, e continuare a crescere insieme percorrendo lo stesso cammino senza cedere alla tentazione della sostituzione e della conversione, da una parte, e dell’affrettata elaborazione dettata dall’ansia di farsi meglio intendere, dall’altra. Sono questi i nuovi orizzonti da conquistare, senza mai cedere il passo alla stanca ripetizione, senza mai piegarsi al vuoto gesto formale, per far sì che le innumerevoli visite e i tanti incontri che ancora ci attendono continuino a rinnovarsi e a palpitare di autentica, incessante emozione.
gv
Pagine Ebraiche, febbraio 2016
(18 gennaio 2016)