…visita
Uno dei cardini della democrazia sta nella possibilità, per una persona, di dire che non è d’accordo con gli altri. Per validarla, questa possibilità, bisogna esercitarsi di continuo.
Sto pensando alla visita di papa Bergoglio alla Sinagoga di Roma. Abbracci, commozione e tanti discorsi di significato. Lascerà un segno? Certamente sì, come le altre visite di Wojtyla e Ratzinger. La storia se ne ricorderà, e noi saremo marchiati come i ‘fratelli maggiori’, che ancora non si è capito bene che significato vero abbia e che cosa implichi per noi.
Incontrarsi e discutere non può far male a nessuno, almeno così si pensa. Forse però qualcosa può ostacolare l’incontro vero e la comprensione vera, ed è quando l’esposizione mediatica di un evento supera, con il proprio peso, i contenuti dell’evento, ossia quando la pubblicità attira molta più attenzione degli argomenti messi sul tavolo e dei risultati acquisibili, e l’incontro si risolve in una grande, bellissima ripresa televisiva utile all’archivio della RAI.
Che papa Bergoglio ci riconosca è davvero un bene, anche se nessuno ci dice mai in faccia, con chiarezza, ‘come’ veniamo riconosciuti, e per che cosa, e a che fine – ammesso che ci sia un fine. Ma può esserci, qualche volta. Perché quello che conta sono le intenzioni delle parti nell’incontro, che non sempre hanno per obiettivo ultimo solo l’incontro in sé.
Papa Bergoglio è di certo spinto dal desiderio di contrastare lo spirito antisemita che pervade l’Europa. Non ha interesse tuttavia a sentirsene moralmente responsabile, ha invece interesse a confermare la propria centralità religiosa e politica sulla scena internazionale, e lo fa presentandosi come mediatore e interlocutore, per nulla imparziale, nelle questioni più svariate. Non per nulla ha riconosciuto politicamente lo stato di Palestina, perché il Vaticano è un’entità politica, più che religiosa. Ci si chiede allora che carattere l’incontro intendesse avere. Carattere politico di certo; religioso non si sa. Si è parlato di antisemitismo, ma si sono presentate anche le ragioni di Israele, perché la grande (piccolissima, in effetti) comunità italiana vive e sopravvive solo in quanto legata a filo doppio con il governo di Israele, ancor più che con lo stato d’Israele. Noi ci assumiamo in toto la politica di un governo, lasciando ben isolati coloro che, in Israele, lo contestano. E non sono più così pochi.
Da diversi anni infatti, ci siamo assunti il compito di fungere da ambasciatori di Israele, come se Israele non avesse un suo regolare ambasciatore in Italia, forse anche perché i principi di identità culturale dell’ebraismo italiano si sono indeboliti al punto da non offrire altro aggregante che lo stato di Israele – oltre alla Shoah. Così sentiamo le nostre guide, religiose e amministrative, discettare di politica e impegnarsi in esercizi di diplomazia, dimenticando, magari, quale dovrebbe essere il loro effettivo campo d’azione. Questo però, si è visto, premia politicamente, e questo è quel che importa.
A falsare i comportamenti è proprio lo sfondo scelto per l’incontro con il Papa. Ciò che nel salotto di una sede rappresentativa sarebbe potuto essere un franco scambio di idee, un confronto necessario, utile e propositivo, è stato trasformato in evento mediatico, dove a ciascun partecipante è richiesto di apparire significante, di illudersi di essere celebre per un istante e di poter dare il proprio contributo alla storia del mondo. In realtà, l’unico a beneficiare dell’attenzione della stampa e del mondo è stato, come ci si poteva e ci si doveva aspettare, papa Bergoglio. Tutti gli altri sono state le comparse che la storia dimenticherà. Come dimenticherà i loro pur caldi discorsi. Bergoglio è un politico, come i suoi due ultimi predecessori. Non per nulla, dopo Giovanni XXIII, i papi sono stati chiamati con il loro nome ‘civile’: Wojtyla, più che Giovanni Paolo II; Ratzinger, più che Benedetto XVI; e Bergoglio, più che Francesco. Questo spiega tutto del loro ruolo. Non sempre negativo, si intenda, ma certamente politico. Vogliamo seguirli su questa strada? È nel nostro interesse? Noi saremo sempre le loro comparse, tutt’al più il loro pubblico paziente e muto. E come sempre, è ovvio, mi scuso con tutti gli amici.
Dario Calimani, anglista
(19 gennaio 2016)