Periscopio – Vivian Maier
Lo straordinario successo postumo della fotografa Vivian Maier (1926-2009) – fatta oggetto in tutto il mondo di mostre (tra cui, la grande esposizione in corso a Milano), cataloghi, pubblicazioni, filmati, saggi critici, tutti all’insegna della più profonda ammirazione – solleva diverse considerazioni.
Certamente, alla base di questo diffuso interesse c’è l’enigmatica personalità dell’artista, a proposito della quale, nonostante il suo eccezionale talento, c’è da chiedersi innanzitutto se si sia mai considerata tale, dal momento che, in tutta la vita, trascorsa in solitudine e nel più totale anonimato lavorando come babysitter, non si è mai premurata, a quanto pare, di esibire neanche una sola delle sue immagini. Può un artista lavorare soltanto per se stesso, senza curarsi minimamente di mostrare a nessuno i propri lavori?
Se le opere d’arte sono come delle parole, quelle di Vivian ci appaiono delle parole mute, prive di alcun ascolto, e non – come, inesorabilmente, tante volte capita agli artisti, o sedicenti tali – perché il mondo non ne apprezza il talento, ma perché è lo stesso artista che del giudizio del mondo sembra infischiarsene nel modo più assoluto. È solo il caso che ha salvato dal macero quell’autentico tesoro rappresentato dai tantissimi rullini non sviluppati della Maier, ritrovati dopo la sua morte in uno scatolone di cartone, in attesa di essere buttati tra i rifiuti.
E l’interesse è ulteriormente alimentato dalla scarsità di notizie di cui si dispone riguardo alla biografia sua e della sua famiglia, tipico esempio dell’immigrazione europea negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso. Appare quasi certo che il padre, Charles (nato Karl), fosse ebreo per parte di entrambi i genitori (Wilhelm von Meyer,cognome poi americanizzato in Maier e Marie Hauser, arrivati in America nel 1905 con la nave Kronprinz Wilhelm dall’impero austro-ungarico), mentre era probabilmente di famiglia cattolica la madre, Maria (prima Marie) Jaussaud (o Jaussard), immigrata dalla Francia. Nata a New York, Vivian (il cui nome appare riportato anche come Vivianne, o Vivan) Dorothea visse prevalentemente a Chicago, dividendo i suoi giorni tra il suo lavoro di bambinaia e la sua passione di fotografa, che la portò a rubare momenti di vita privata e pubblica di innumerevoli persone, di ogni età, nazionalità e condizione sociale, colte nelle strade, nei negozi, nei parchi, tra i grattacieli e i rifiuti di un’America del cui caotico, disordinato sviluppo le sue immagini ci lasciano una vivida testimonianza, non solo artistica, ma anche storica.
Il fenomeno Maier chiede di essere interpretato, a mio parere, non solo sul piano artistico ma soprattutto su quello sociologico e psicologico, ossia sul significato di questa singolare notorietà incontrata, in tutto il mondo, da una persona che al mondo era evidentemente molto interessata – al punto da fissarne le vicende e le figure in oltre centomila scatti -, ma al quale pareva anche beatamente indifferente, tanto da disprezzarne completamente le illusorie lusinghe della notorietà e delle luci della ribalta.
La Maier ha scelto di vivere nel silenzio e credo che il fascino della sua opera risieda soprattutto in questa sua scelta, che, in questi tempi così chiassosi, appare così singolarmente controcorrente. Il mistero della fotografia, si potrebbe osservare, è sempre legato alla magia del silenzio, alla sua capacità di racchiudere in un’immagine muta il rumore della vita.
Ma il silenzio delle foto della Maier appare, per così dire, un silenzio “al cubo”, il silenzio di una spettatrice che guardava al flusso della vita restandone al di fuori, quasi presagendo che tutto quello che lei guardava, e fotografava, presto sarebbe scomparso, per cui non aveva senso affannarsi per organizzare mostre, esibizioni, vernissage, che sarebbero stati a loro volta fotografati, ma per poi finire, a loro volta, nell’oblio, nel nulla. E il suo sguardo, sempre severo e imbronciato, che emerge dai numerosi autoritratti, pare voler dire che la vita è bella e interessante, ma non proprio divertente.
Le sue foto silenziose, così, appaiono come un prezioso simbolo del mistero della vita, dell’eterno alternarsi tra l’essere, il divenire e lo scomparire. Un silenzio del silenzio.
In questo senso, vogliamo credere che il suo grande successo stia a mostrare che l’umanità non è poi sempre così sorda, cieca e insensibile come spesso ci appare, e ringraziamo la silenziosa artista per avere realizzato questo piccolo miracolo.
Francesco Lucrezi, storico
(20 gennaio 2016)