Il settimanAle
Prospettive libanesi
Ingenuamente pensavo che nei miei tre giorni e mezzo a Beirut avrei raccolto e riferito quello d’interessante che i media libanesi dicono di Israele. Ingenuamente perché, come avrei potuto sapere anche dai loro siti online, su Israele utilizzano tutti fonti d’agenzia, oppure riproducono articoli da giornali occidentali.
L’unica differenziazione è nella scelta degli argomenti. Ad esempio An Nahar e Ya Libnan, che simpatizzano per la coalizione 14 Marzo che si richiama all’ex primo ministro (assassinato dai siriani) Rafic Hariri, riportavano con gusto della scoperta in Israele di una cellula terroristica messa su dal figlio di Nasrallah, la guida degli Hezbollah; notizia invece comprensibilmente trascurata da As-Safir, che simpatizza per l’opposta coalizione filo-Assad 8 Marzo, di cui gli Hezbollah sono componente fondamentale.
E sono proprio gli “Hezb” al centro dell’ultimo clamoroso contorcimento della politica libanese: l’appoggio platealmente esteso da Samir Geagea, leader delle Forze Libanesi cristiane, uno spezzone del fronte anti-siriano, alle ambizioni presidenziali del suo ex acerrimo nemico Michel Aoun, leader cristiano di un grosso partito del fronte filo-siriano, alleato degli Hezbollah. Questo dopo che il figlio di Hariri, Saad, capo del più grosso partito libanese, il Movimento Il Futuro, anti-siriano, fondato dal padre, aveva invece candidato a presidente un altro alleato cristiano degli Hezbollah, Suleiman Frangieh, il cui nonno, omonimo, era stato presidente, mentre il padre era stato ucciso proprio da Geagea e da Elie Hobeika, quello per intendersi della strage di Sabra e Shatila. Il quale Geagea, tolto di mezzo il suo capo Hobeika, era stato condannato a ben 4 pene di morte per altrettanti assassinii politici, non tutti riuscitigli. Commutatagli la pena all’ergastolo, è uscito dopo 11 anni ed è prontamente tornato leader del principale partito cristiano alleato di Hariri figlio. Anche perché, nello stesso anno, l’ex-capo dell’esercito e poi ex-primo ministro provvisorio Michael Aoun, estromesso dai siriani nel 1990 e salvatosi per il rotto della cuffia grazie ai francesi, era tornato dall’esilio alla testa del suo partito alleato ora degli stessi siriani, che 15 anni prima avevano cercato d’eliminarlo.
Confusi? Vi possono aiutare a chiarire le idee i disincantati lettori libanesi. Se guardate sui siti online de L’Orient Le Jour o del Daily Star, trovate loro commenti come: “Aoun e Geagea? Si sono finalmente guardati in faccia, e ciascuno ha gioito nel vedere lo stesso fascista che vede ogni mattina davanti allo specchio” oppure, un più lapidario: “avanzi di galera”.
Ma se il principale elemento nel curriculum vitae dei leader libanesi è l’aver provveduto all’eliminazione dei propri avversari, siamo così sicuri che i leader israeliani vantino meriti di natura affatto diversa? Certo, quelli che sono finiti in galera ci sono finiti per violenze sessuali, un presidente, o per corruzione, un primo ministro ed un ministro dell’Interno; ma quando vengono eletti quali sono le credenziali più sicure che possono esibire, se non quelle relative alla cosiddetta “sicurezza”? cioè, in fondo, alla capacità di provvedere all’eliminazione degli avversari?
Se davvero l’occupazione dei territori palestinesi un giorno avesse termine e, come preconizza Michael Sfard su Haaretz del 23 gennaio, tutti improvvisamente rivelassero di averla sempre avversata, di aver fatto parte della “Resistenza”; o se comunque in qualche modo cessasse l’apartheid, come lo definisce senza mezzi termini il 22 gennaio il proprietario di Haaretz Amos Schocken, che ce ne faremmo di leader eletti principalmente in base alle credenziali di sicurezza? Riuscirebbe la società civile israeliana ad esprimere una diversa classe dirigente?
Un indizio che può portare ad una risposta ce lo suggerisce un articolo di Flora Mory sul Daily Star del 19 gennaio. Riferendosi ovviamente al Libano, riporta uno studio che quantifica in mezzo milione le persone che hanno lasciato il paese dal 1992, nella stragrande maggioranza giovani in cerca di lavoro e di condizioni migliori per realizzare le proprie aspirazioni. Secondo un altro studio, oltre il 50% dei giovani o è già emigrato all’estero o sta pensando di farlo. Le persone votano anche con i piedi, ma le possibilità di sostituzione di una leadership inadeguata svaniscono se coloro che dovrebbero votarne una nuova, in Libano come in Israele, sono già andati via.
La scuola cui ho partecipato all’Università Americana di Beirut mi ha lasciato però ottimista. Il calore e l’entusiasmo non solo dei colleghi e degli studenti libanesi, ma anche di quelli arrivati da Egitto, Palestina, Giordania, Iraq, Iran e Turchia mi ha fatto intravedere una gioiosa mescolanza simile in spirito a quella dei giovani di tutto il mondo, non ebrei inclusi, che vengono attratti sempre di più da Tel Aviv.
C’è chi va via, ma c’è anche chi viene.
Alessandro Treves, neuroscienziato
(24 gennaio 2016)