La Memoria, i giovani

paolo petroniPer parlare con i giovani, a cominciare da mio figlio, sono abituato a cercar di ricordare come reagivo io a mio tempo, a come le cose, dette in un certo modo, mi entrassero da una parte per uscire dall’altra, come quelle dette e ridette allo stesso modo finissero per avere talvolta il risultato contrario a quello sperato. Oggi poi, con la velocità e superficialità della comunicazione, con la massa di notizie che diventa naturalmente indistinta penso sia anche peggio.
Mi è venuto in mente questo partecipando di anno in anno alle cerimonie per il Giorno della Memoria, sentendolo una volta di più un qualcosa di sostanzialmente celebrativo e retorico, chiuso in se stesso e nel suo mantra del ricordare per non far ripetere, che ha la sua innegabile e necessaria verità, ma anche una smentita palese dalla storia, come è già stato messo in rilievo da pensatori, anche ebrei, ben più autorevoli di me, e come ha fatto non molto tempo fa Elena Loewenthal. Sull’ultimo numero di Pagine Ebraiche leggo l’intervento di Anna Foa, che nasce dalle stesse preoccupazioni, a proposito di una mostra innovativa all’Istituto Van Leer di Gerusalemme.
Io mi chiedo appunto quanti giovani – perché penso che il vero senso del Giorno debba essere arrivare a loro, magari anche quelli delle curve allo stadio – si pensasse di raggiungere in questo modo, ogni anno riproponendogli le stesse cose in modi più o meno sempre eguali, legati alla realtà culturale del Novecento, che negli ultimi due decenni si è profondamente trasformata. Non voglio, non so giudicare: so solo che la trasmissione della cultura e del sapere oggi sta diventando assolutamente diversa e solo col tempo sapremo se sarà migliore o peggiore di quella con cui siamo cresciuti noi.
Ho vicino ragazzi consapevoli, che hanno in famiglia protagonisti della Resistenza e che con la scuola sono stati a Auschwitz, ma sono naturalmente insofferenti ormai a sentir riparlare di queste cose a questo modo, proiettati a modi di comunicare assolutamente diversi e nuovi. Sono ragazzi per cui tutto quel che è accaduto è storia, non diversamente dai martiri del risorgimento, dagli eccidi della Grande Guerra, dai genocidi in Cambogia o nel Ruanda (per citarne due a caso), e in tv hanno visto tante volte, purtroppo, foto di montagne di cadaveri, che i meno avvertiti forse non distinguono più le une dalle altre.
Allora credo che bisognerebbe interpellare studiosi della comunicazione, del mondo giovanile, della psicologia dell’età evolutiva, esperti dei nuovi media, di telefonini e social network per sapere come comunicare oggi il fatto che l’uomo è capace di trasformarsi in belva, puntando certamente sulla Shoah (ma forse non solo), per cercare di far capire qualcosa di più complesso, profondo e che deve arrivare con strumenti e mezzi nuovi, coinvolgendo chi vive nel mondo delle immagini in diretta e della comunicazione globale.
Con l’inevitabile sparizione dei testimoni diretti, qualcosa certo si sta muovendo e credo oggi, più di tutto il resto, serva uno spettacolo come quello di Paolini in tv o di Celestini o il Concerto della Memoria al Parco della Musica, con artisti e mezzi capaci di comunicare dal vivo anche emozioni che rendono attivo il messaggio. Detto questo, ammetto di non avere personalmente vere e nuove soluzioni pronte, ma penso sempre di più che il problema vada posto e dibattuto, pur in tutta la sua scomodità, per non disperdere energie, per costruire sulle basi del passato tutti assieme un futuro migliore, che vivranno i giovani di oggi e domani.

Paolo Petroni, giornalista

(24 gennaio 2016)