La virtualità senza virtù
Apprezzo l’impegno devoluto alle cause di principio (non tutte, va da sé, poiché i principi non si equivalgono così come la diversità di visuali non implica l’equivalenza degli sguardi) ma in certi ambienti, dovrei dire in determinati ‘habitat’, rischiano di essere solo una miscela tra sforzi inani e defatiganti reiterazioni.
A chi svolge una professione intellettuale, peraltro oggi in genere sempre meno strutturata di quanto non lo fosse anche solo in un passato neanche troppo lontano, quindi precaria nella sua retribuzione così come nel suo riconoscimento sociale, capita spesso di essere chiamato in causa per comprovare la veridicità, o quanto meno la plausibilità, di altrui affermazioni. Le idee pervicaci, ossia i convincimenti, che stanno a presupposto di queste richieste, sono molteplici. La prima di esse è che chi studia sa di più di chi non l’ha fatto. Come non essere in accordo con tale evidenza, anche se la professione di cultura non sempre è una garanzia assoluta, prestandosi a piegature e manipolazioni?
Non di meno, chi chiama in causa lo ‘studioso’ a convalidare il proprio dire, spesso non ha ad oggetto la conoscenza in quanto tale (un’attività che produce risultati assai più ambivalenti di quanto non si voglia accettare in linea di principio) bensì l’affermazione delle proprie ragioni come imperativo assoluto. L’aspettativa è, in questo caso, molto chiara: ti convoco, ti chiedo di venire qui non a dire la tua opinione ma esclusivamente per supportare la mia. C’è una diffusa retorica, quella dei ‘senza se e senza ma’, che da tempo ha cristallizzato ogni forma di comunicazione, cristallizzandola in maniera maniacale. Dà un senso, in verità assai fragile, di sicurezza: c’è sempre una qualche ‘ragione superiore’ che starebbe dalla ‘nostra parte’.
E se non aderisci a questo impianto è perché ‘mi vuoi male’ e rappresenti una ‘minaccia’ per me. C’è chi parrebbe dire, con fare inquisitorio: “come ti è permesso il baloccarti su certi pensieri, quando il nemico è alle porte? Non sai che così facendo porti acqua al suo mulino? Non hai capito che è in atto una lotta mortale?”.
Segnatamente, è ciò che si impone ad una parte dell’intellettualità araba, non importa quanto minoritaria, quand’essa si sforza, timidamente, di scostarsi dall’asfissiante avversione nei confronti del ‘sionismo’ come male assoluto, radicale, quindi ‘nazista’. Quindi, altro che ‘morte delle ideologie’. Semmai fine della politica, quanto meno come terreno del conflitto e della sua mediazione. Ad essa si accompagna l’intolleranza che insorge, come un moto spontaneo, quando si possono porre dei distinguo. L’accusa di ‘tradimento’, o quanto meno di ambiguità, quasi che si fosse sul pericoloso crinale della compromissione con il ‘nemico’, è pressoché immediata. Tutta l’attività scientifica, di ricerca, di studio e di riflessione si basa sulle distinzioni. L’uniformità è la morte di qualsiasi principio di ragionevolezza come anche di costruzione non di un astratto sapere bensì di concrete conoscenze, quelle che si usano per la vita di relazione di ogni giorno. Va aggiunto, tuttavia, a rincarare la dose, che l’uniformità non necessariamente è l’antitesi di certe forme di razionalità, dove invece la costruzione paranoica si basa su una sequenzialità rigida, maniacale ma intrinsecamente coerente.
Rimane il fatto che compiere distinzioni non implica relativizzare, cosa quest’ultima che in molti campi è invece un esercizio di ordine prevalentemente se non esclusivamente morale, mentre in altri è ‘tartufesca’ resa all’omologazione di un qualche ‘pensiero unico’, prodotto della pressione collettiva. Non tutto si equivale né, tanto meno, si deve tenere nel medesimo sacco, per così dire. Ma è bene ricordarsi, a presente e futura memoria, che proprio l’essere parte di una qualche minoranza – non importa quale, da cosa connotata, come e da chi vissuta – del pari al sentirsi cittadini, implica il rispetto della varietà dell’umano, non la sua riduzione ad un unico denominatore. È un diritto, prima ancora che un dovere, quello che va esercitato.
Così facendo non si aprono le porte all’inumano, preservando semmai lo spazio della mediazione, quello tra individui che non siano ridotti solo a sembianti, ovvero rigenerandolo ogniqualvolta sia possibile. Questo riscontro, che dovrebbe essere tanto ovvio quanto condiviso, invece nel web, un habitat ‘informativo’ che vive di una potenza sua propria che a volte sembra sopraffare la vita di ogni giorno, cade nel volgere di pochi secondi, quando le comunicazioni, seguendo un copione tanto bislacco quanto prevedibile, trascendono in scene simulate, virtuali ma non per questo meno aggressive, di wrestling se non di vera e propria boxe. Oramai pressoché su tutto, o quasi.
Anche sul semplice “buongiorno!”, a partire dal quale si innescano catene di comunicazioni sempre più rabbiose, letteralmente avvolte su di sé, quindi capaci di riprodursi quasi automaticamente. La Rete sembra avere prodotto una particolare categoria di giustizieri, quelli che convocano a processo chiunque possa essere considerato, o anche solo vagamente sospettato, di non costituire la copia conforme delle proprie convinzioni. Non si tratta solo di un meccanismo politico – che la storia ci consegna nitidamente con i processi staliniani – ma di una più generale disposizione d’animo alla sottile diffamazione civile, alla proscrizione relazionale, all’emarginazione non tanto del dissenso (quest’ultimo un pericolo che alligna comunque nelle nostre società, a prescindere dalla loro evoluzione democratica) bensì di un consenso ragionevole, come tale argomentato non dall’asfissiante riproposizione dei medesimi cliché. Forse quella malattia che è il ‘presentismo’, l’essere compressi sempre e solo sul tempo corrente, vive di questa completa mancanza non di ragioni ma di capacità di offrirle ad una lettura problematica. Senza per questo sentirsi messi sotto scacco o, ancora peggio, sull’orlo di una catastrofe. Con la paura, e le minacce, tuttavia, non si costruisce nessun futuro. I regimi totalitari ci hanno campato a lungo, finché gli è stato possibile. Poi, hanno trascinato le collettività nel proprio baratro.
Claudio Vercelli
(24 gennaio 2016)