Memoria, l’emozione di Zi Pucchio
“Tornato uomo grazie al calcio”
“Il calcio? Mi ha aiutato a ripartire, a guardare con una luce diversa al futuro. Anche se certe ferite non le ho mai dimenticate. D’altronde, dopo aver visto l’inferno, come avrei potuto?”
Novanta anni appena compiuti, Alberto Mieli è uno degli ultimi Testimoni italiani della Shoah ancora in vita. Un impegno che porta avanti con generosità: intervenendo nelle scuole, partecipando a conferenze, firmando libri. L’ultimo dei quali, scritto a quattro mani con la nipote Ester, esce in queste ore nelle librerie (Eravamo ebrei. Questa era la nostra unica colpa, ed. Marsilio) e sarà presentato domani pomeriggio al Maxxi (ore 18) e mercoledì alle 17 presso la Radio Vaticana.
Autunno del ’45: Alberto torna a Roma, dopo aver vissuto l’orrore di Auschwitz e Mauthausen. Sul suo braccio un tatuaggio impresso a fuoco: 180060, il numero con cui lo avevano marchiato i nazisti. Oggi lo mostra senza titubanze, ma allora non era così. “Portavo nel fisico e nell’anima le lacerazioni di quei mesi terribili – racconta – ma non avevo voglia di darmi per vinto. E capii che non c’era tempo da perdere. Che dovevo fare qualcosa”.
Si forma e consolida un gruppo di amici, uniti dall’amore per il calcio. L’appuntamento è all’impianto Bruno Buozzi, in Trastevere, scenario di epiche e interminabili partite. Furono quelli i primi passi che portarono alla nascita di un’associazione con tutti i requisiti. Che fu molto più di un consorzio di volenterosi atleti, quanto l’emblema di una Comunità impegnata a risollevarsi dalle macerie. Si chiamava Stella Azzurra. La Stella era quella di Davide, azzurro il colore di Israele.
“C’era un significato speciale in quello che facevamo. Ma in quel momento – spiega Mieli – pensavamo soltanto a vincere. E nel nostro piccolo ci riuscimmo. Giocavamo bene, in modo armonico. Sempre all’attacco. Altre squadre amatoriali finirono per temerci e rispettarci”.
Mieli era l’esterno di difesa. Buoni polmoni e tanta volontà, un motorino al servizio della squadra. Mille corse sulla fascia che lo aiutarono soprattutto a respirare. A sentirsi nuovamente un essere umano.
“Poco tempo prima ero un animale destinato al macello, in balia di criminali che uccidevano e torturavano milioni di innocenti. Giocando a calcio – conferma – ho riscoperto un bene prezioso, di cui non ho più potuto fare a meno: la libertà”.
Come sottolinea con orgoglio Mieli, la Stella Azzurra lanciò ad alti livelli “l’unico ebreo romano ad aver giocato in Serie A”. E cioè Giovanni Di Veroli, detto Ciccio, roccioso difensore che militò nella Lazio dal 1952 al 1958.
Il calcio è ancora oggi una passione. Anche se col passare del tempo – confessa il Testimone – la magia si è un po’ spenta. “I personaggi che la mia generazione ha potuto ammirare restano insuperabili. Come se non bastasse, oggi ci sono troppi tatticismi e attenzione esasperata alla fase difensiva. Meno schemi e più libertà: alla Stella Azzurra facevamo così. E ci divertivamo tanto”.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
(24 gennaio 2016)