Memoria – “Settant’anni dopo, come vive il ricordo”

anna foaUna mostra della primavera scorsa all’Istituto Van Leer a Gerusalemme ha posto la questione della trasmissione della memoria della Shoah oggi, una questione che si ripropone continuamente anche a noi, ebrei della Diaspora o non ebrei, studenti, insegnanti, cittadini e che anche quest’anno è presente, come un convitato di pietra, alle celebrazioni del 27 gennaio. Come rinnovare il nostro modo di ricordare la Shoah? che uso farne e in che modo trasmetterla? L’elemento di maggiore interesse di questa iniziativa israeliana è che essa è il frutto di un percorso di studio e di riflessione durato tre anni, portato avanti da un gruppo di lavoro chiamato “Transmitting Memory and Fiction”, composto da storici, ricercatori, artisti, psicoanalisti, scienziati e diretto da Michal Govrin, scrittrice, poeta e regista di teatro. Hanno lavorato con il gruppo anche tre sopravvissuti d’eccezione: due storici, Saul Friedländer e Otto Dov Kulka, e lo scrittore Aharon Appelfeld. Il punto di partenza di Michal Govrin, l’ideatrice del progetto, è il fatto oggettivo della progressiva scomparsa dei sopravvissuti (oggi in Israele ne restano 190000, ma la loro età media è di 85 anni), oltre al senso di disagio e di inadeguatezza che le commemorazioni pubbliche le lasciano. Il suo percorso professionale di scrittrice la porta inoltre ad interrogarsi sul ruolo della fiction nel render viva la memoria e ad assumere uno sguardo quanto mai aperto alle discipline più diverse. Di qui, da questi bisogni e riflessioni, è nato questo gruppo, che ha dato vita a eventi commemorativi sperimentali basati sulle modalità del Seder, dislocati in 10 località del paese, oltre alla mostra stessa, che è una straordinaria esposizione molto aperta, con venti video di monologhi fatti dai membri del gruppo, oltre a opere d’arte, discussioni, incontri, immagini, filmati, musica. La percezione nell’insieme è quella che ci si troviamo di fronte a qualcosa di nuovo e carico di grandi possibilità. Ho chiesto a Michal Govrin di spiegarci la sua iniziativa.

Anche in Italia il problema di come trasmettere la memoria dopo la scomparsa dei testimoni si pone in maniera insistente. Ma qui io sono molto impressionata dal fatto che lo risolvete in un modo molto diverso da noi: state restituendo vita alla memoria.
Una piccola nota storica personale: sono io stessa figlia di una sopravvissuta. Mia madre era una donna molto forte e coraggiosa e ha sempre mantenuto il silenzio (l’unica volta che ha parlato è stato in un tribunale in Germania). Vent’anni dopo la sua morte ho compreso che dovevo scoprirne la storia parlando, dal momento che con lei non potevo più parlare, con le donne del suo gruppo che erano ancora in vita. Era una storia di eroismo ad Auschwitz e a Bergen Belsen. Scrivendo ho compreso che non stavo scrivendo la mia storia ma una storia identica a quella di migliaia di altre storie di persone che sono cresciute come me in famiglie di sopravvissuti, con il destino comune di avere ricevuto in età infantile dei messaggi emozionali incomprensibili. La memoria non esiste in quanto memoria monolitica e fissa, ma è la posizione di quanti erano testimoni, e nel gruppo ho invitato degli psiocoanalisti e degli scienziati a spiegarci questa natura della memoria. Tuttavia chi ha vissuto questi eventi ha diritto alla memoria. Ho così fondato questo gruppo che, per tre anni, ha lavorato sul nostro modo di costruire la memoria. Come un artista che costruisce opere di fantasia noi costruiamo all’interno di noi stessi dei mondi che chiamiamo memoria. Oltre a questo è emersa una cosa molto importante, che è poi il senso del nostro lavoro. Se la memoria è molteplice, se non facciamo che costruire, vuol dire che ciascuno è responsabile della memoria che costruisce.

Che cosa fate per ridare vita alla memoria? E quale memoria?

La memoria delle crudeltà che abbiamo oggi, dopo settant’anni, è la memoria del male, dei metodi dello sterminio. Il museo di Auschwitz mette in mostra solo le modalità della violenza. La violenza si vende bene e noi facciamo la pornografia del male. Come resistere alla cancellazione dell’umano? E la memoria della vita? Di come mia madre e le sue compagne hanno acceso le candele del Chanukkah, la forza della resistenza spirituale messa in atto quotidianamente? Sono atti diversissimi, la rivolta armata, un pittore che fa dei ritratti, delle donne che danno un pezzo di pane a un bambino, qualcuno che canta, Primo Levi e il canto di Ulisse, tutto questo per noi sono gesti esemplari che resistono alla cancellazione dell’umanità. E che ci indicano il dovere di tirar fuori da questo evento una lezione per noi e l’umanità. Siamo già la terza generazione in cui ciascuno si domanda come esercitare la propria responsabilità verso l’umanità. Con gesti che siano dei gesti di commemorazione.

Avete creato un testo, una sorta di Haggadah, avete inventato un rituale. Qual è il ruolo del rito, in quest’operazione di costruzione memoriale che state facendo?

Oltre a visitare la mostra il visitatore è invitato a fare un viaggio, a far parte di questa presa di consapevolezza del passato compiuta nei diversi monologhi. Abbiamo compreso che la Shoah, che è stato un avvenimento che ha spezzato la vita degli individui, è stata vissuta in comunità forzate di ogni classe e professione, esposte tutte insieme allo stesso fato. Questa condivisione di un destino comune mi sembrava essenziale alla memoria di quell’epoca. Abbiamo inoltre sentito che nel Giorno della Memoria c’è ovunque una sorta di malessere, le persone non sanno cosa fare. C’è una pesantezza del ricordo dei fatti, una costernazione, uno spavento che talvolta crea dei rifiuti in senso opposto. Una parte della crescita dell’antisemitismo può forse essere un modo di sovvertire la memoria della Shoah. La forma frontale delle commemorazioni pubbliche o dei film risveglia le emozioni ma lascia gli spettatori muti, lo spettatore non ha un luogo per esprimersi, per domandarsi qual è la sua memoria, per uscire dalla solitudine, non ha la sensazione di far parte di quelli che commemorano. Abbiamo provato ad attingere dalla memoria ebraica un’altra forma di memoria che non è solo volta verso il passato, solo la rappresentazione, sempre per necessità falsata, del passato, ma è quello che raccogliamo per il presente. Come a Pesach, quando ciascuno si vede come se fosse uscito dall’Egitto ma si deve domandare cosa fosse la schiavitù, e come la memoria della schiavitù dell’Egitto ci ha spinti a creare il Sabato e le leggi sociali della giustizia. Ho quindi fondato un secondo gruppo composto da storici, rabbini ortodossi, laici, dirigenti comunitari, filosofi, e insieme abbiamo scritto, quest’anno in forma ancora sperimentale, una sorta di haggadah, tale da generare un rituale per una comunità che si riunisce: lo chiamiamo la riunione commemorativa. L’aspetto rituale è necessario per trasmettere alla persona un momento emozionale, necessario come sappiamo nel lutto. Quest’anno lo abbiamo fatto in 10 comunità differenti composte di giovani, studenti, membri delle comunità, pubblico, qui a Gerusalemme in una stanza dell’Istituto Van Leer. La stanza era piena di luoghi e di memorie. Ciascuno dice il suo nome, poi il nome della comunità da cui viene, quelli che hanno perso dei famigliari dicono il loro nome, in altri passaggi c’era la memoria delle comunità distrutte dell’Est e dell’Ovest, ho messo brani di Primo Levi sul Piemonte o di Scholem su Berlino, o sullo Shtetl, come le lamentazioni composte nell’Africa del Nord quando Rommel si avvicinava e temevano per la loro sorte. Tutto questo crea un sentimento di condivisione che oggi in Israele non è così evidente. È come a Purim, il senso che tutta la comunità è minacciata. Poi abbiamo aggiunto un capitolo che chiamiamo “Il male”, dove parliamo della presenza universale e continua della minaccia del male che incombe su di noi. La coscienza che non si tratta di una minaccia limitata ad un momento particolare ma costante. Non solo per gli ebrei ma per tutti. Bisogna essere vigili per comprendere le condizioni che rendono un uomo normale un assassino, in nome di un’ideologia o di altro. Il cuore del nostro rituale è una grande antologia delle voci della resistenza al male, di come si mantiene l’umanità, citazioni di Primo Levi, di Stefan Zweig, di Etty Hillesum, un grande deposito di testi che il moderatore sceglie a seconda della comunità, testi anche non noti della resistenza civile. La seconda parte comincia con la citazione “Ricordati che sei stato schiavo in Egitto” e tratta delle questioni urgenti di oggi, i rifugiati che chiedono asilo, la povertà, che cos’è l’identità ebraica, la nostra responsabilità di fronte alla memoria del mondo scomparso. Questioni che questa memoria ci obbliga ad affrontare. L’ultima parte termina con dei canti che durante la guerra sono serviti a infondere coraggio. Uno dice: credo ancora nell’umano. Le persone alla fine si alzavano, si davano la mano. Una donna la cui famiglia è stata quasi completamente distrutta mi ha detto: “È la prima volta che avverto un sentimento di consolazione”. Serve che la memoria ci porti verso la vita e non solo verso la violenza e la morte. La mostra all’Istituto Van Leer di Gerusalemme è terminata nel maggio scorso. Sarebbe importante se per l’anno prossimo fosse portata anche da noi, per aiutarci a ripensare la Shoah e il modo in cui la ricordiamo.

Anna Foa, storica
Pagine Ebraiche, febbraio 2016