Cinguettii senza cervello
Cosa unisce l’IHRA, organizzazione internazionale intergovernativa presidio della Memoria, alla passione per le macchine da corsa? Verrebbe da riderne, se non ci si trovasse di fronte a un esempio di quali effetti indesiderati e comici possa produrre la demenza digitale.
Il messaggio è consueto, per lo meno per gli utenti attivi su twitter, il social network più amato da chi vuole essere sempre aggiornato sul mondo: “CargoPal-MaryLola ha ritwittato il tuo Tweet”. Un utente dal nome singolare, con più di 19 mila follower. Quanto basta a incuriosire, anche perché l’argomento del tweet non era dei più “social”.
C’erano hashtag, menzioni, un link all’articolo e un’immagine, tutte cose che funzionano su twitter, dove non ci sono invasioni periodiche di gattini o citazioni ad effetto, e dove sono rari l’acredine e il livore di molti gruppi su facebook, dove ormai le discussioni interessanti, che pur ci sono, tendono a sparire, fra gli insulti e i panda.
Ma perché un articolo su Kathrin Meyer, Executive Secretary della International Holocaust Remembrance Alliance raccoglie l’interesse della CargoPal, produttore di accessori da usare sui trailer per le auto da corsa basato a Timpson, Texas? La chiave sono proprio le auto da corsa, di cui si occupa l’IHRA, la International Hot Rod Association, che con la International Holocaust Remembrance Alliance condivide la sigla.
Diciannovemila e cento follower di un produttore texano di accessori per auto da corsa hanno avuto l’occasione di scoprire che esiste una associazione intergovernativa che si occupa di Memoria e di Shoah, grazie a un sistema automatico che regala un retweet a tutto ciò che contiene la sigla IHRA.
Forse a qualcuno interessava anche.
E sicuramente qualche delegato invece di occuparsi di “Holocaust Remembrance” avrà dato un’occhiata alle ultime notizie sulle corse, andando sul sito “sbagliato”.
I sempre più numerosi “bot” (robot, automatismi) gestiscono interazioni sui social e lavorano quotidianamente per noi. Utili per alcune cose, portano a risultati al limite del fraudolento in altri casi.
Nulla di male nell’istruire il proprio account a ritwittare automaticamente tutto quello che contiene una stringa di caratteri definita, molti social media manager usano sistemi simili che effettivamente semplificano e sveltiscono il lavoro, soprattutto quando si ha a che fare con un traffico importante. Esempio classico, l’innovazione: basta inserire l’hashtag #innovation, o #startup per essere inseriti in liste di presunti specialisti e guadagnare follower e retweet.
E chiunque abbia un profilo sui social network vuole ottenere like, essere ritwittato, e soprattutto guadagnare follower.
Si possono comprare, con pochi dollari ne arrivano a centinaia o anche migliaia: fenomeno diffusissimo su facebook, ha preso da tempo piede anche su twitter, dove è pur vero che non sono rari i profili con migliaia o anche decine di migliaia di follower “veri”. Il mondo “finto” di twitter però va ben al di là, gli automatismi che permettono di lavorare sul proprio profilo o su quello dei propri clienti per far crescere a dismisura l’account sono ormai parecchi, e diffusi. E si nota.
A volte l’acquisto avviene per sbloccare i limiti al rapporto following/followers imposti da Twitter, più spesso se ne comprano di finti per poi seguirli e cercare di convertirli in veri. Ma è un lavoro, e richiede tempo, così come tempo e cura e soprattutto testa sono necessari per gestire un profilo sui social.
Ai gestori a volte non importa nulla della qualità, ma solo della quantità: vantare follower, ottenere traffico in più. In questo caso la soluzione è un sistema che si chiama #followback. Basta scovare un account che lo abbia messo in piedi e ritwittare i post che produce a getto continuo, e poi seguire – indistintamente – tutti quelli che pochi secondi prima hanno fatto lo stesso. Nel giro di poco ci si trova con un account seguitissimo. Circondati da pescecani affamati di visibilità.
Lo stesso risultato si può ottenere mettendo nella bio che racconta chi siamo l’hashtag #followback, o anche #ifollowback, che è una sorta di marchio distintivo di chi utilizza questo sistema. E seguire tutti quelli che ci seguono, per evitare di farsi coprire di insulti. Piccolo problema: non si fa una gran bella figura.
In realtà è molto semplice capire chi ha fatto uso del #followback per gonfiare il proprio profilo su twitter, anche senza andare a vedere se tra quelle decine di migliaia di follower ci sono account improbabili, che si riconoscono a colpo d’occhio. A parte la crescita troppo rapida, con migliaia di nuovi follower apparsi magicamente in una notte, chi ha usato il #followback, pure se con ragionevole discrezione e in maniera controllata non ha solo un numero sorprendentemente alto di follower, ma soprattutto per mantenere alto quel numero deve a sua volta seguire una cifra altrettanto grande di profili. E non importa se fra di essi c’è un quoziente di profili scomodi, o antisemiti.
Ada Treves @atrevesmoked
(Immagine tratta dal libro “Demenza digitale” di Manfred Spitzer, ed. Corbaccio, 2013)
(29 gennaio 2016)