Kippah e laicità
Dato che la scuola chiamata in causa due giorni fa da Simone Somekh nel suo articolo “L’Italia e il rispetto per la kippah” è la stessa in cui insegno non ho potuto fare a meno di sentirmi coinvolta dal problema che pone. Nei primi anni in cui Simone era lì anche io ero arrivata da poco e non tutti i miei colleghi sapevano che sono ebrea; dunque ho effettivamente avuto occasione di cogliere tra gli insegnanti qualche commento sulla kippah. Non credo però (e del resto neanche Simone afferma questo) che ci fosse una particolare malevolenza nei confronti degli ebrei: in generale tutti i comportamenti difformi da quelli della maggioranza suscitano un certo grado di diffidenza, specialmente tra gli adolescenti e gli insegnanti, che a volte danno fin troppo peso alla coesione del gruppo classe.
Mi permetto inoltre di aggiungere un elemento al quadro tracciato da Simone: presso alcuni miei colleghi la kippah suscitava perplessità perché c’era la percezione che fosse un’imposizione dei genitori, una forzatura a cui il ragazzo era costretto contro la sua volontà. Ma in quale misura in un paese democratico è lecito dire “ti vieto di fare questo perché sono convinto che ti sia stato imposto”? Da questo punto di vista il discorso somiglia molto a quelli a cui siamo abituati da anni, in particolare a proposito della legge francese contro l’ostentazione di simboli religiosi nelle scuole pubbliche, che infatti vieta, insieme al velo islamico, anche la kippah. Quando si parla del velo molti (anche tra gli ebrei) ritengono che sia giusto vietarlo, ma quale argomentazione logica permetterebbe di ammettere la kippah nelle scuole pubbliche e contemporaneamente proibire il velo?
Dunque il problema posto da Simone Somekh è reale e importante, da inquadrare in un discorso più ampio. Talvolta, invece, c’è chi perde di vista l’insieme e si limita ad analizzare le circostanze immediate (chi è amico di chi, chi è ostile a chi); in questo modo, però, si finisce – seguendo il discutibile principio secondo cui i nemici dei nemici sono amici – per schierarsi dalla parte di chi pretende di imporre nelle scuole pubbliche crocifissi, presepi e canti natalizi in nome della difesa della civiltà occidentale e della lotta all’integralismo islamico. Ma la battaglia in difesa della kippah non ha proprio niente a che fare con la lotta per i simboli cristiani nella scuola pubblica (e non solo per la differenza evidente tra i comportamenti individuali e quelli collettivi): da una parte si rivendica il diritto ad essere diversi, dall’altra si invoca il diritto di far sentire i diversi fuori posto; non è la stessa cosa, anzi, mi pare che sia esattamente il contrario.
Anna Segre, insegnante
(29 gennaio 2016)