La Memoria può salvare il presente

Schermata 01-2457417 alle 09.37.03Nel 1998 il primo ministro svedese, Goran Persson, rimase colpito dai risultati di un sondaggio, che mostrava come molti studenti non credessero al racconto di quanto avvenuto durante la Shoah. Un dibattito sull’istruzione e la funzione delle scuole del Paese portò a una intensa azione diplomatica, sfociata nel primo incontro della Task Force for International Cooperation on Holocaust Education, Remembrance, and Research, che sarebbe poi diventata la International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA).
Il peso accademico di personaggi prestigiosi, tra cui lo studioso della Shoah Yehuda Bauer, docente alla Hebrew University di Gerusalemme e il lavoro diplomatico portarono a un sostegno internazionale forte e diffuso. L’organizzazione già nell’anno della fondazione ha avuto fra i suoi membri Germania e Israele e l’Italia, l’anno successivo, è stata fra i primi partecipanti a quella che si è venuta strutturando come una rete tra governi.
Sono ora 31, più 8 osservatori, e Sandro De Bernardin, veneziano, volto noto della politica internazionale con numerosi incarichi di rilievo alla Direzione generale per gli affari politici e di sicurezza della Farnesina, ed ex ambasciatore in Israele, è arrivato in autunno alla guida delle delegazione italiana, nominato dal Ministro per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca.
Pragmatico, concreto, nell’avvicinarsi del Giorno della Memoria ha accettato di ampliare il ragionamento iniziato a poche settimane dalla sua nomina, appena rientrato dalla riunione plenaria dell’IHRA, che a inizio novembre ha avuto luogo a Debrecen, in Ungheria.
Il paese, che aveva la presidenza dell’ente nel 2015, prima di Romania (quest’anno) e Svizzera, ha ospitato un incontro in cui – ha raccontato De Bernardin – era forte la consapevolezza della particolare pressione messa dalla crisi internazionale in atto su temi tanto sensibili: “L’afflusso di persone in cerca di asilo rischia di stimolare reazioni di insofferenza, intolleranza e xenofobia.
Un rifiuto dell’altro che ci preoccupa e che va affrontato con fermezza”. Una preoccupazione di De Bernardin è quanto poco sia nota l’IHRA. “Sono convinto
che questo particolare network dovrebbe essere conosciuto di più. E dovrebbero essere noti a tutti gli straordinari risultati a cui si è arrivati negli anni, grazie soprattutto all’intenso e costante scambio di esperienze tra i paesi membri.

Quali sono, dunque, le particolarità dell’IHRA?

Va ricordato che l’IHRA è una rete intergovernativa che impegna 31 paesi al più alto livello. Il semplice fatto che ne facciano parte sia Israele che la Turchia, per esempio, potrebbe essere un indicatore del livello e della mole di stimoli alla riflessione e di spunti che ne possono risultare. Si tratta di una grande opportunità di coordinamento multilaterale e allo stesso tempo di monitoraggio.

Con degli obiettivi specifici…

Innanzitutto l’impulso all’educazione e alla ricerca storica, così come una particolare attenzione alla conservazione dei siti della Memoria.
È importante sottolineare chi ha la responsabilità di nominare la delegazione italiana, una indicazione preziosa su quali siano i nostri interessi e i nostri obiettivi primari. Non si tratta di una scelta uniforme fra tutti i paesi membri, ma che l’istituzione governativa responsabile di definire componenti e obiettivi nazionali sia il Miur indica una volontà consapevole e ben precisa di porre l’accento sull’educazione.

Come avviene il confronto fra paese anche molto diversi?

La collaborazione fra i membri dell’IHRA è fortissima, e l’impegno a livello transnazionale è costante, così come la fiducia reciproca: basti pensare che ogni paese si sottopone regolarmente alla valutazione del proprio operato da parte degli altri membri dell’organizzazione.
Nessun luogo è davvero immune dai rischi di un rafforzamento del negazionismo e dell’intolleranza. Il confronto sulle scelte fatte, poi, è continuo, e anche il confronto sulle buone pratiche adottate, che così tendono a diffondersi, in una disseminazione continua delle idee.

Le attività organizzate ogni anno in occasione del Giorno della Memoria dovrebbero essere un antidoto ai negazionismi, e uno stimolo a riflettere.

Certo, ma non posso non fare un collegamento con una situazione che ho vissuto durante il periodo in cui sono stato l’ambasciatore italiano in Israele: durante la mia permanenza ho visitato più volte lo Yad Vashem, e ricordo di aver avuto il timore che le visite ripetute potessero in qualche modo portare a una “abitudine”. È lì che ricordo di aver pensato chiaramente “guai a me”!, il rischio che ripetitività e ritualità di certe iniziative possano portare a una sorta di stanchezza psicologica esiste, così come la possibilità che in certi casi sopraggiunga una qualche forma di banalizzazione.
È importante che la Shoah continui ad essere percepita come una tragedia attuale, con agganci forti sulla realtà di oggi. E che questo sia chiaro soprattutto ai non ebrei.

C’è davvero un rischio di assuefazione e banalizzazione, quindi?

Serve un’attualizzazione, che più sarà efficace tanto più sapremo depurarla da qualsiasi forma di strumentalizzazione impropria. La Shoah ha una specificità che va tenuta ben presente: non sono possibili commistioni di alcun tipo, né con Israele, né con la politica. E non ebrei sono coloro che si resero colpevoli sia attivamente che per non aver fermato i colpevoli. Sono loro che devono essere attivi nel ricordo e nelle attività del Giorno della Memoria. E bisogna essere
sinceri: con la retorica, e soprattutto con la retorica buonista, non si arriva lontano.

Le pare che ci sia una prevalenza del buonismo, una tendenza a perdonare tutto?

Mi ha sempre colpito come gli esecutori materiali della Shoah possano essere stati delle persone normali. A modo loro non erano amorali, ad esempio erano spesso degli ottimi padri di famiglia, ma si erano costruiti una morale strumentale.
Forse anche va ricordata la prevalenza, per gli essere umani, di una logica tribale, la stessa che tende ad affermarsi quando c’è una competizione per le risorse e che spinge a riservare la solidarietà solo ai membri del proprio gruppo. Ma è da questa logica che bisogna uscire.
Del resto non bisogna stupirsi: la Shoah si è consumata in quei luoghi dove era del tutto saltato il sistema delle garanzie civili e vigeva l’arbitrio. Fu consumata soprattutto nei Paesi occupati, dove la struttura statale era stata distrutta.

È una questione di vigilanza?

Non è un caso che l’abisso si sia spalancato laddove era assente l’organizzazione nazionale. Anche una volta abbracciate logiche che pongono l’uno contro l’altro, per arrivare a forme vere e proprie di esclusione bisogna eliminare le strutture statali. Accettare una forma di esclusione apre la porta a tutte le altre. Combattere l’antisemitismo significa combattere ogni forma di intolleranza.. Si tratta di un dovere civico, primario, e come tale dovrebbe essere insegnato.
Perpetuiamo la memoria della Shoah anche per difendere lo Stato di diritto da logiche di arbitrio che lo minerebbero.

Quali sono le priorità, oggi, dell’IHRA?

Nell’ultima sessione plenaria è stato deciso all’unanimità che l’IHRA deve impegnarsi subito in quei luoghi dove c’è un flusso disordinato di migranti, proprio per insegnare a rifuggire dalla paura del diverso.
Sottolineo che si tratta di una decisione presa all’unanimità. Credo sia un dato importante. E i paesi membri sono stati invitati a riflettere su come educare la società all’accoglienza. Tra febbraio e marzo si intensificherà il lavoro su quanto prodotto dalle singole delegazioni nazionali per arrivare a maggio, alla prossima riunione plenaria, pronti a un documento condiviso.

Pare molto ottimista.

È importante portare ai governi un documento di raccomandazione sottoscritto da tutti i trentuno paesi membri dell’IHRA, senza eccezioni.
Dopo quello che abbiamo visto in questi mesi, con la difficoltà di Bruxelles di definire una linea condivisa, spero davvero che avremo successo nel trovare un
punto di incontro. Credo molto nella nostra esperienza sull’approccio educativo, utile soprattutto a favorire il dialogo.

E in Italia?

Tra poche settimane il segretario generale dell’IHRA sarà in Italia, per incontrare il ministro Giannini e progettare insieme i prossimi passi da fare. Si tratta di un riconoscimento sia del ruolo che della competenza dell’Italia: davvero credo che non sia abbastanza noto che il nostro paese ha una tradizione consolidata di formazione degli insegnanti, che da molti anni produce risultati di livello altissimo.
Siamo di esempio agli altri Paesi. Stiamo anche lavorando sull’idea che sia proprio l’Italia ad assumere una delle prossime presidenze: c’è l’ipotesi di portare avanti la nostra candidatura già per il 2018.

Davvero crede sia possibile giungere a un’intesa?

L’IHRA si occupa di argomenti complessi, in cui le singole sensibilità contano moltissimo. Non va dimenticato che durante i suoi lavori siedono intorno allo stesso tavolo paesi estremamente diversi, ma la convinzione e l’impegno di tutti è fortissimo. Abbiamo tutti la convinzione, non puramente accademica, che gli insegnamenti che si possono trarre da quello che è stato siano importantissimi. La Shoah deve parlare alla gente di oggi.

Ada Treves

Pagine Ebraiche, febbraio 2016

(Il disegno è di Giorgio Albertini)

(29 gennaio 2016)