Venezia – Quelle lettere da Urbisaglia
La storia di Carlo Alberto Viterbo raccontata attraverso l’intensa corrispondenza che ebbe con la moglie e il figlio tredicenne durante i mesi trascorsi nel campo di Urbisaglia, raccolta ora dal figlio Giuseppe nel volume Il giorno di ritorno che verrà, è stata presentata ieri pomeriggio all’Ateneo Veneto dall’autore insieme alla storica Giulia Albanese e con l’introduzione di Renato Jona
Giornalista e avvocato, Carlo Alberto Viterbo nacque a Firenze il 23 gennaio 1889. Fu presidente della Federazione Sionistica Italiana dal 1921 e ricoprì la stessa carica ancora nel 1931, nel 1933 e nel 1935. A seguito della conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia, su incarico dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane e d’intesa con il governo fascista, si recò in missione presso la comunità dei falascià. Venne arrestato, insieme a molti altri anti-fascisti italiani, la mattina nel giugno 1940, trattenuto per 17 giorni nel carcere di Regina Coeli e infine trasferito nel campo di concentramento di Urbisaglia, in provincia di Macerata.
“…Nessuna autorità ha contestato nulla a nessuno tutti quanti nello stesso modo siamo stati arrestati, messi in prigione e poi condotti qui senza che alcuno ci abbia detto né come né perché e fin quando”
“In questo stralcio tratto da una delle lettere di Viterbo – ha spiegato Albanese – viene sottolineata la totale arbitrarietà dell’arresto e la difficoltà, trovandosi in questa situazione, di comprendere fino in fondo i meccanismi che presiedono a quella politica di carattere persecutorio.”
Nel periodo che passò nel campo di prigionia Viterbo organizzò corsi di italiano e di ebraico, gestì la piccola biblioteca allestita dagli internati, e fu chazan e guida spirituale sia nelle preghiere giornaliere che nelle principali festività ebraiche.
La sua religiosità sembrò decisamente rafforzata da questa esperienza. Sul confronto con altri internati scriveva: “Durante la settimana per un’ora al giorno leggo e spiego qualcosa dal libro di preghiere e forse la domenica comincerò dalle lezioni di ebraico. Non tutti assistono, ma la maggioranza. Ci sono purtroppo degli spiriti dissidenti che si danno arie di liberi pensatori e non si accostano alle riunioni. Mi fanno pena perché perdono un grande conforto e doppiamente pena perché essendo qui come ebrei non conoscono e non amano quell’ebraismo per il quale soffrono. Sono più disorientati e disgraziati degli altri”.
Tornato a Roma sotto mentite spoglie dopo il suo rilascio nel 1941 continuò a collaborare con il Delasem fino alla liberazione. Nel dopoguerra Viterbo riprese le pubblicazioni del settimanale Israel, assumendone anche la direzione continuando a collaborare con le diverse istituzioni ebraiche nazionali fino alla sua morte nel 1974.
Dalle sue lettere traspare non solo uno spaccato della storia italiana di quegli anni, ma anche la fibra morale di un uomo in cui erano saldi i principi morali e religiosi ebraici. Insegnamenti che tentò di trasmettere ai suoi compagni di sventura e che rappresentano in un certo qual modo un testamento ideologico per i suoi cari.
Michael Calimani
(29 gennaio 2016)