Il SettimanAle – Sparta
“Prendi il MIT, Harvard, Princeton, Yale e Caltech, mettili tutti assieme, e avrai un’idea di questa incredibile unità dell’esercito israeliano chiamata Talpiot.” Talpiot è il programma che consente a cadetti super-selezionati di fare l’università durante il servizio militare, e poi dirigere attività di ricerca e sviluppo tecnologico, in cambio di una ferma prolungata fino a nove anni; ma non crediate di aver letto materiale propagandistico dei reclutatori dell’esercito. Ad esprimersi così è invece Walid Raad, un’artista libanese che in occasione di una sua mostra al Museum of Modern Art di New York ha raccontato di come è stato avvicinato dal Fondo Pensioni per gli Artisti. Il Fondo si basa su un’idea semplice ma geniale: convincere a partecipare 250 artisti al top, in ciascuna delle città in cui opera, New York, Londra, Berlino, Bombay, Pechino, Dubai, Città del Messico, … . Ogni artista si impegna a cedere al fondo un’opera all’anno, che potrà essere esposta, lasciata in magazzino oppure venduta. Nell’ultimo caso, un terzo del ricavato andrà all’autore, un terzo al Fondo e un terzo sarà redistribuito fra i 249 altri artisti, fra i quali ci sarà qualcuno che sta attraversando un periodaccio, e potrà così contare su una modesta entrata per la sua sopravvivenza. Ma che c’entra Talpiot? C’entra, perché quando Walid Raad si è accorto che il Fondo era stato messo su da israeliani usciti da Talpiot, l’ha visto in tutt’altra luce: “mica stupidi. Al 2012, avevano già raccolto oltre 5000 opere d’arte da 1400 fra i migliori artisti al mondo, e tutto senza spendere un soldo”. Si è sentito sul punto di essere ghermito da un’altra brillante manovra offensiva dell’onnipotente Tsahal. Accade così, come scrive Taly Krupkin su Haaretz del 28 gennaio, che anche sul mercato internazionale dell’arte si rafforzi il mito di Israele come nuova Sparta, dove i più forti si preparano al dominio tramite un lungo e duro addestramento alla guerra.
Un’equazione, Israele=Sparta, al centro degli argomenti del professor Jeff Halper, l’antropologo americano che vive da oltre 40 anni in Israele, attivo in particolare contro la demolizione delle case dei palestinesi, e che il 26 gennaio è venuto a parlare in Italia, a Trieste. Halper, che chiama al boicottaggio d’Israele, ha sì dedicato la parte centrale del suo intervento agli israeliani impegnati a vendere armi e ad addestrare milizie, governative e non, in Africa, Asia e America Latina, ma non ha rivelato nulla di nuovo: ricalcava fedelmente una trasmissione che ho visto sul secondo canale in Israele solo qualche settimana fa. Certo, i mercanti d’armi e i “contractors” italiani non saranno da meno di quelli israeliani come volume globale d’affari, ma sono ben lontani dal caratterizzare l’immagine dell’Italia nel mondo nella stessa misura. Italia uguale Sparta non verrebbe in mente a nessuno.
Mentre l’idea di Israele come Sparta, anche come percezione di sé all’interno del paese, preoccupa perfino Nehemia Shtrasler. Shtrasler non è un comunista, anzi come opinionista di Haaretz si oppone spesso ad altri difendendo a spada tratta il libero mercato e, per esempio, quello che lui vede come il sacrosanto diritto delle compagnie di arricchirsi col gas naturale scoperto nel Mediterraneo. Ma il 26 gennaio, nel ripensare all’ossessione per la sicurezza che il governo impone al paese, e che fa passare i problemi dell’istruzione, della povertà, del costo degli alloggi, dei trasporti inefficienti, in secondo piano rispetto agli stanziamenti per l’esercito, ai sistemi per snidare i potenziali traditori, al rafforzare il terrore che l’aviazione incute nel nemico; nell’ascoltare il primo ministro vantarsi che “i leader del mondo libero vengono a chiederci di cooperare nella lotta al terrorismo, e in tutto ciò che noi possiamo offrire nel campo della sicurezza”; Shtrasler si chiede se l’essere diventati Sparta non sia la fine d’Israele e del sogno sionista.
Alessandro Treves, neuroscienziato
(31 gennaio 2016)