Periscopio – Perdono
Tra le tante tematiche affrontate nel corso della varie manifestazioni intercorse per il Giorno della Memoria, particolarmente interessante mi è sembrato l’argomento scelto come titolo per l’incontro promosso a Napoli dal Centro Universitario per la Ricerca Bioetica, organismo che unisce, in un comune impegno, tutte le otto Università della Campania, ossia la “problematicità del perdono”, intorno al quale si sono confrontati, davanti a un nutrito pubblico di giovani, relatori di diversa estrazione.
Solo pronunciare la parola ‘perdono’ il Giorno della Memoria potrebbe apparire scandaloso, ma la discussione è stata invece, a mio avviso, utile e interessante, in quanto è andata al di là del semplice rifiuto del perdono (inteso come semplicistico e gratuito “condono” della colpa, e magari di una colpa incommensurabile), per affrontare alla radice il problema di cosa tale parola voglia e possa significare. Personalmente, in tema di perdono, ritengo che tre punti siano preliminari e irrinunciabili. Innanzitutto, l’idea che niente potrà mai cancellare il male che è stato fatto: esso, semplicemente, è esistito, e quindi esisterà per sempre, così come la responsabilità ed esso legata. In secondo luogo, il principio secondo cui soltanto la vittima diretta ha diritto di perdonare, e che il perdono non può conoscere mai alcuna forma di ‘delega’. Infine, la subordinazione di qualsiasi forma di perdono a un serio e sincero percorso di ravvedimento e riparazione da parte del responsabile del male fatto (anche in questo caso, senza alcuna forma di delega: come i figli delle vittime non possono perdonare per le sofferenze inflitte ai loro padri, così i figli dei carnefici non possono farsi perdono al posto dei loro padri).
Primo Levi affermò che non avrebbe negato di perdonare un nemico che si fosse sinceramente e seriamente ravveduto, perché non avrebbe voluto rinunciare alla sua fiducia nell’umanità, e perché “un nemico che si ravvede non è più un nemico”. “Potrei io volere la morte dell’empio, dice il Signore, e non piuttosto che si converta dalla sua malvagia condotta e viva?”, si legge in Ezechiele (18.23). È vero che intorno al significato della parola ‘perdono’ si è consolidata una divaricazione tra sensibilità cristiana ed ebraica, ma Fernando Millàn Romeral, Priore Generale dei Carmelitani – nonché grande alfiere del dialogo ebraico-cristiano – spiega che questa distanza riflette una differenza di sensibilità e soprattutto di percezione, ma non una irriducibile contrapposizione spirituale e morale: “Jankelevitch – nota il religioso – parlava di ‘forme di simil-perdono’ o ‘perdoni apocrifi’, che a volte sono necessari (socialmente e psicologicamente) ma che non sono un vero perdono. Nella dottrina cattolica classica sul sacramento della penitenza, questo risulta ovvio: per essere perdonato ci vuole il dolore dei peccati commessi, il desiderio serio di riparare (nella misura del possibile) il male commesso, e la seria volontà di non peccare più. Ma se parliamo di peccato sul serio (non i peccatucci di una morale pacata e infantile) e i peccati producono vittime… chi pensa alle vittime? Non si banalizza il perdono e dunque il dolore delle vittime? Se il male è banale, anche la salvezza e la storia umana sono banali, crudelmente banali. Il pensiero ebraico sottolinea più la serietà del peccato (senza dimenticare il perdono), mentre il pensiero cristiano sottolinea più la gratuità del perdono, perche questo è al di sopra della giustizia (senza negarla, e senza dimenticare la serietà), ma essi si complementano e si equilibrano e sono un avviso a vicenda riguardo alla possibilità di possibili deviazioni (la giustizia meramente vendicativa da una parte, la banalità e la caricatura del perdono, dall’altra)”.
Quel che è fuori discussione è che la morte della vittima brucia per l’eternità la parola ‘perdono’, come ribadito, nella manifestazione di Napoli, da Amnon Carmi, titolare della Cattedra di Bioethics presso l’Università di Haifa, che ha ricordato, con le parole di Abraham Heschel, che dovrebbero essere i morti, e solo loro, a perdonare. “Nessuna forma di perdono è possibile – ha aggiunto, nel suo messaggio, Paolo Ferrara, in rappresentanza della Comunità ebraica di Napoli – perdono che non è stato mai integralmente richiesto, e che non si saprebbe neppure nei confronti di chi dovrebbe essere portato, vista la estrema segmentazione e frammentazione delle responsabilità e delle colpe”.
È importante perciò, a mio avviso, non solo affermare che la parola ‘perdono’, con la Shoah, è stata cancellata sei milioni di volte, ma anche spiegare che questa cancellazione non riguarda affatto – come a volte si vorrebbe tendenziosamente intendere – l’idea generale del perdono, che conserva una sua validità, e che esce anzi rafforzata da una chiara definizione dei suoi possibili ambiti di applicazione e dei suoi limiti invalicabili, proprio ad evitare quella banalizzazione del male che, come notato da Millàn Romeral, comporterebbe anche, inevitabilmente, una banalizzazione del bene.
Francesco Lucrezi, storico
(3 febbraio 2016)