L’INCHIESTA DEL GUARDIAN Primavere arabe, il mea culpa degli scrittori
Nel gennaio 2011 erano passate solo poche settimane da quando Mohamed Bouaziz, venditore ambulante tunisino, si era dato fuoco sulle strade della sua città per protestare contro il sequestro della sua merce e gli abusi subiti dalle forze dell’ordine. Poche settimane in cui l’onda di quella che cominciava a essere definita “primavera araba” aveva iniziato a lambire i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, dopo aver costretto alle dimissioni il presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali, alla guida del paese da oltre vent’anni, dopo aver conquistato il potere nel 1989 con un colpo di Stato. In quei giorni, il quotidiano britannico Guardian chiese a numerosi scrittori arabi di esprimere la loro opinione su quanto stava accadendo. Scrittori, poeti, giornalisti di nazionalità varie, egiziana, siriana, marocchina, libica, che espressero, pur con diverse sfumature, grande ottimismo, la convinzione che qualcosa nei propri paesi si stesse muovendo verso maggiore libertà, democrazia e prosperità. Cinque anni dopo, lo stesso giornale ha domandato nuovamente loro di fare il punto sui cambiamenti iniziati allora. “I was terribly wrong”, “mi ero tremendamente sbagliato” si intitola la raccolta delle testimonianze pubblicata negli scorsi giorni. Che guardano al buio di queste giornate e si domandano se vi sia ancora spazio per qualche ottimismo.
“Cinque anni fa il Guardian mi chiese di valutare gli effetti della sollevazione tunisina sul resto del mondo arabo, e soprattutto sulla Siria. Riconobbi che il paese era in nessun modo esente dalla crisi legata alla disoccupazione, ai salari bassi e al soffocamento della società civile che attraversava il mondo arabo, ma comunque sostenni che nel breve e medio periodo, sembrava estremamente improbabile che il regime siriano si trovasse ad affrontare una prova simile a quella tunisina,” scrive lo scrittore britannico-siriano Robin Yassin-Kassab. Nel giro di poco invece, come ripercorso dallo scrittore stesso, anche la gente di Damasco avrebbe cominciato a scendere nelle strade contro il presidente Bashar Al Assad. A fronte delle prime sanguinose repressioni, “molti sospesero il proprio giudizio” ricorda ancora Yassin-Kassab. Il 30 marzo 2011 Assad aveva in programma un discorso al Parlamento. “Molti si aspettavano delle scuse e l’annuncio di riforme serie. Invece Assad minacciò, fece riferimento a una cospirazione e, ciò che è peggio, ridacchiò ripetutamente”. Il resto è storia, o cronaca, tristemente nota per via dei milioni di morti, feriti, profughi, gente pronta a qualsiasi rischio, pur di abbandonare il paese.
Il blogger egiziano Alaa Abd El Fattah partecipa all’inchiesta del Guardian dalla prigione Tora al Cairo, dove sta scontando cinque anni. Una famiglia dalla forte tradizione di attivismo per le libertà e i diritti umani alle spalle, Abd El Fattah è stato arrestato più volte, a partire da quando ancora alla guida dell’Egitto c’era Hosni Mubarak. Nel gennaio 2011 non viveva più nel paese, ma scelse di tornare per prendere parte alla rivoluzione, e da allora è uscito ed entrato di prigione, fino ad arrivare alla condanna all’inizio del 2015 per aver violato la proibizione di organizzare proteste pubbliche.
“Negli ultimi cinque anni, l’immagine della Tunisia nei media nazionali e internazionali è cambiata radicalmente, passando dall’essere la culla della Primavera araba, alla sua ultima speranza,” scrive lo scrittore e accademico tunisino Nouri Gana. “La disastrosa degenerazione delle proteste popolari in guerra civile (Siria e Libia) o in regime militare (Egitto) ha gradualmente consolidato il posizionamento della Tunisia al centro di una emergente narrativa di eccezionalità. Ma se questo da una parte potrebbe mettere in evidenza i successi nonviolenti ottenuti dalla rivoluzione tunisina, allo stesso tempo acuisce la consapevolezza dell’enormità delle difficoltà che il paese sta attraversando”.
Non tutte le voci degli scrittori sono radicalmente critiche. C’è chi descrive la situazione in modo più sfumato, chi proferisce comunque parole di speranza, chi come il palestinese Tamim al-Barghouti, parla di “responsabilità coloniali”, “interessi di America e Israele da preservare” ed è con argomentazioni simili che spiega il fallimento delle rivoluzioni.
Una cosa però sembra mettere d’accordo tutti: nel 2016, la primavera in quella zona del mondo non è ancora arrivata. E per ora non è nemmeno all’orizzonte.
Rossella Tercatin
(4 febbraio 2016)