Il culto della sensazione
Qualsiasi fatto sociale, ogni evento collettivo che sia destinato ad andare oltre lo spazio di un momento e a lasciare una qualche traccia, prima o poi deve confrontarsi con la cultura popolare, ovvero “popular”, ossia il pop di massa. Tra l’altro, la definizione del significato di questa espressione è ben lontana dall’essere condivisa. Più che altro indica il giustapporsi, così come spesso il sovrapporsi, influenzandosi vicendevolmente, di percezioni e idee, di sensazioni e di concetti che convergono verso un “comune sentire”, il quale si impone poi all’attenzione collettiva come la forma per eccellenza nell’interpretare il senso del tempo corrente secondo un giudizio comune. Il condimento abituale è quello offerto dal sensazionalismo: nel pop di massa tutto si trasforma in “sensazione” totale, tanto repentina quanto priva di una lunga durata. Un perenne attimo fuggente, fatto della mobilitazione di sentimenti (e a volte dei risentimenti), salvo poi non dare corso a qualcosa di lunga durata. Non siamo a ciò che certuni chiamano “egemonia”, categoria complessa, perlopiù di derivazione politica, ma senz’altro ad uno snodo fondamentale della coesione sociale, quello che si basa sull’influenza reciproca di raffigurazioni condivise. Viviamo in mezzo ad una miriade di immagini: il nostro mondo ne è affollato. Senza di esse, peraltro, del mondo medesimo sapremmo poco o nulla. Crediamo che l’esistenza sia fatta di esperienza vissuta, la quale senz’altro conta, ma l’ampiezza delle cognizioni che ci sono richieste esula dai fatti per come li viviamo direttamente, rinviandoci semmai alla capacità permanente di astrarre.
Fondamentale, a tale riguardo, l’ibridazione con i mezzi di comunicazione di massa, così come la loro forza trascinante, a tratti normativa (il creare delle regole di interpretazione da molti condivise), riuscendo questi a miscelare, dettare il passo, prescrivere priorità per poi tradurre il tutto in una sorta di mainstream che sembra preesistere a quelle stesse persone che hanno invece concorso a crearlo. La forza del pop di massa, infatti, sta nel fondere produzione e consumo, facendo sì che il produttore sia anche il consumatore (e viceversa). Astruserie, qualcuno obietterà. Non è propriamente così quando ci troviamo dinanzi a fenomeni moralmente e culturalmente compositi, come la traslazione della salma di Padre Pio e la sua ostensione per il “Giubileo della Misericordia” dinanzi ad una nutrita folla. La questione non è relegata ai solo credenti di fede cattolica, quanto meno a coloro che si riconoscono in un vero e proprio culto nei confronti del presbitero dell’ordine dei Cappuccini, andando semmai oltre, in quanto, per l’appunto, fenomeno di “massa”. Perché interpella segmenti significativi della collettività ai quali non può essere ascritta solo l’inaderenza o l’anacronismo delle loro convinzioni ma, piuttosto, il bisogno di vivere un’emozione e una identificazione con qualcosa di inerte qual è il corpo del frate. Tralasciamo quindi riprovazione, sconcerto o, peggio ancora, eventuali contumelie laddove qualcuno si sentisse in diritto di esprimerle. Così come soprattutto giudizi secchi, affrettati poiché destinati a contrapporre ancora una volta la “modernità” che abiteremmo pienamente, all’atavicità di certe “tradizioni”, intese come residuali, in quanto retaggio esclusivo del passato. Non è detto che non occorrano, almeno in certi casi, gli atti di differenziazione da ciò che avvertiamo come distante da noi. Tuttavia non aiutano a capire, comprendere e, soprattutto, a reagire nel modo appropriato, se ci fermiamo a un tale elementare stadio della riflessione.
Poiché la legittima moralità della critica rischia, nel qual caso, di trasfondersi nel moralismo del giudizio e il diritto alla distinzione in obbligo al politicamente corretto, tra il radicalismo del rifiuto e il donchisciottismo del relativismo totale. Due declinazioni della “cultura del piagnisteo”, così come la chiamava Robert Hughes già molti anni fa. In una società dove lo scambio economico e la forma merce, in tutte le loro manifestazioni, sono architravi delle relazioni sociali così come della costruzione dell’identità individuale, la ricerca di una qualche forma di devozionalità acritica assume spesso la funzione di compensazione a qualcosa che si sente come mancante. Ovvero, non soddisfatto dal solo consumo. Che poi il rapporto con il corpo mummificato (e santificato) di Padre Pio passi anche attraverso uno spregiudicato ricorso a forme di consumismo di massa non è di per sé solo ed esclusivamente un indice di manipolazione, e neanche di contraddizione rispetto a quanto si va dicendo, ma anche e soprattutto della modalità con la quale ci rapportiamo al bisogno di credere in qualcosa. La mediazione, infatti, avviene comunque attraverso il denaro e il suo rapporto con l’inanimato, l’inorganico, di cui è la massima espressione. Il denaro non vive, se ci pensiamo bene, se non attraverso i valori che ad esso gli attribuiamo. Non di meno, ed è un altro elemento di riflessione, il “credere” in una qualche “verità” si incontra, anche nella nostra epoca che si vuole modernissima, anzi, postmoderna o giù di lì, attraverso forme fideistiche, dove al riscontro razionale è sostituita l’empatia totale. Si tratta di una modalità che si appella al sentimento di massa, all’adesione viscerale, all’identificazione totale, così come al vuoto di ragionamento. In tale senso, al di là dei suoi aspetti a sé stanti, il culto che in questi decenni si è costruito intorno al corpo di Francesco Forgione da Pietrelcina, rimanda ad un disagio diffuso, ben più ampio di quello espresso da una parte dei suoi numerosi fedeli. Si tratta, nella sua concreta manifestazione, di una sorta di punta di iceberg, che trova poi altre stazioni, ulteriori moventi e numerosi momenti alternativi, che si coniugano a quanto stiamo vedendo.
La processione di credenti che si accompagna all’esposizione della salma (qualcosa che ha molte analogie con l’inquietante mausoleo-sarcofago di Lenin, nella Piazza Rossa, a Mosca) non è una qualche barbarie dello spirito che ritorna ma il riscontro che il moderno incorpora livelli di arcaicità che vorremmo fossero consegnati ad un passato che, invece, non passa. Ed il culto della morte, intesa come il momento della “verità assoluta e quindi suprema”, in tutte le sue numerosi declinazioni, sanziona questo nesso profondo, ben lontano dall’essere stato risolto dal razionalismo dominante nel resto della società.
La domanda di fondo diventa allora questa: quanto tutto questo ha a che fare con ciò che chiamiamo e riconosciamo come “memoria”? Poiché per i fedeli di Padre Pio la loro devozione è anche memoria attiva. Molto distante dalla funzione di pedagogia civile che noi conferiamo all’atto del ricordo. Ma fortemente incentrata sul dolore e sulla sua funzione di risarcimento al momento della sua commemorazione. E qui c’è un passaggio veramente problematico, sul quale, forse, prima o poi sarebbe bene tornare. Soprattutto quando si osservano processi e percorsi di sovraindentificazione con le tragedie del passato da parte di chi quelle tragedie non solo non le ha vissute ma ne ha una cognizione puramente astratta e ipotetica. Come nel caso di ciò che gli inglesi chiamano il “dark tourism”, che è ben altra cosa da un buon uso della memoria. Anzi, delle memorie. Poiché alla dimensione etica, civile e morale, che il ricordo dovrebbe corroborare e consolidare, si sostituisce una sorta di attrazione fatale, una seduzione per l’inanimato che qualcuno ha persino chiamato “necroturismo”. Il quale, per inciso, non lavora sul passato ma si piega alle esigenze di un presente dove tutto si trasforma in una qualche forma di spettacolo.
Claudio Vercelli
(7 febbraio 2016)