…continuità

Nel 1976, quando ho fatto il mio Bar Mitzva a Venezia, in Italia c’era il terrorismo (un morto al giorno), ci si dibatteva nella crisi economica (inflazione media al 16,5%), si discuteva di leggi sulla famiglia (si andava verso il referendum che avrebbe abolito il reato penale in caso di aborto, ma il presidente Leone preferì sciogliere le Camere…), c’erano forti preoccupazioni per l’inquinamento (disastro di Seveso) e per la tenuta del territorio (terremoto in Friuli). La piccola comunità ebraica lagunare aveva circa 700 iscritti, c’era ancora un macellaio casher (il mitico “De Sanzuane”, a Rialto), si tenevano corsi di Talmud Torà a Venezia e a Mestre. La mia preparazione consisteva nel saper leggere la mia chiamata a Sefer (pochissime righe) e superare un esamino con rav Emanuele Menachem Artom z”l. Non ricordo di aver messo i Tefillin, né che qualcuno me l’abbia insegnato, all’epoca. Comunque sia allora si trattava di scatolette piccole, secondo lo stile italiano. Un oggetto rituale discreto. A Venezia si faceva fatica a raggiungere il numero di 10 uomini il venerdì sera e il sabato mattina. Non sapevo nulla di ebraismo, ma la tradizione familiare accompagnava una formazione di base che nel tempo si è rivelata radicata e forte.
Nel 2016, alla vigilia del Bar Mitzva di mio figlio piccolo, in Italia c’è per fortuna solo il rischio di terrorismo, ci si dibatte ancora nella crisi economica ma senza inflazione, si continua a discutere di leggi sulla famiglia (oggi tocca alle coppie di fatto e all’adozione), le preoccupazioni per l’inquinamento permangono e si aggravano, come pure quelle per la tenuta del territorio. A Venezia ci sono ufficialmente meno ebrei, meno di 500. Non c’è più il macellaio casher ma la comunità è decisamente più vivace. C’è minian quasi tutti i giorni, le iniziative culturali sono continue e ad alto livello. Si continuano a educare giovani generazioni. Un ragazzo che fa Bar Mitzva oggi ha dei Tefillin molto grandi (direi troppo, se posso permettermi) e sa decisamente di più di quel che sapevo io decenni fa. La famiglia rimane comunque il luogo della formazione, ma tutto attorno sono cambiate molte cose.
Rimane l’uso – a Venezia come a Padova, dove mio figlio farà il suo passaggio – di recitare una invocazione all’Eterno composta probabilmente dal rabbino piemontese trapiantato a Venezia all’inizio dell’Ottocento Elia Lattes. Un testo in un ebraico complicato ed evocativo, che nemmeno i visitatori israeliani capiscono bene, e molto ostico da imparare per i giovani del ventunesimo secolo. Ma è un segno della continuità di una comunità che partecipa ai cambiamenti del mondo, eppure si mantiene radicata alla sua storia e alle sue tradizioni. Va recitato, e che sia di buon auspicio.

Gadi Luzzatto Voghera, storico

(12 febbraio 2016)