La memoria e l’identità
Ci sono cose sulle quali è necessario ritornare, non risolvendosi in un’unica soluzione ma costituendo un processo in corso, un percorso in via di realizzandone. Forse si possono rivelare prive di una meta precisa ma hanno senz’altro una serie di passaggi intermedi. L’oggetto è, ancora una volta, la memoria. Macerarsi su di essa, sui suoi significati, sulle tante accezioni che le si possono attribuire non è necessariamente un buon esercizio. Si rischia di rimanere letteralmente ‘accartocciati’ su se stessi, alla ricerca di qualcosa che, alla fine dei conti, può rivelarsi esclusivamente una proiezione delle proprie idee in materia e nulla di più. Dopo di che, alla fine di un ciclo di attività, soprattutto di natura didattica, qualche richiamo ad essa può ancora servire. Tralasciamo il problema della dimensione teoretica, ossia delle definizioni che derivano e conseguono dai tentativi di delimitarne il campo dal punto di vista dei contenuti. A fare giustizi di ciò c’è chi ha già sottolineato l’aspetto per cui la memoria non è un fatto e neanche un oggetto bensì un atto (così David Bidussa). Non si tratta di una scatola magica, preconfezionata, dalla quale tirare fuori degli strumenti e delle componenti da montare, così come invece si fa con i prodotti di una nota azienda di mobilio e casalinghi “fai da te”, bensì di un patto intergenerazionale, che va ridefinito di volta in volta. Ogni generazione si fa una sua memoria ed una o più ragioni delle sue funzioni. Più volte è stato ricordato, ed è bene ripeterlo, che la memoria recupera segmenti del passato per dare soprattutto un senso al presente e proiettare gli individui che se ne fanno carico verso il futuro. La scansione temporale è, da questo punto di vista, strategica. Non solo quella rivolta a ciò che fu ma soprattutto a quanto potrebbe essere. Non esiste memoria attiva, fertile, produttiva se non c’è aspirazione verso il tempo a venire. Da questo punto di vista, se ricordare implica incorporare qualcosa di quel che è stato, la funzione di tale esercizio è rivolta ai vivi, non ai morti.
Altro discorso, va da sé, è la commemorazione. Impegno legittimo ma consegnato ad una sfera personale o comunque fortemente ritualistica. La centralità del discorso sulla memoria ha ingenerato, in questi ultimi anni, anche fenomeni inflattivi, ripetizioni, a tratti – qualche volta – veri e propri esercizi di maniacale attenzione su aspetti del passato del tutto decontestualizzati. Insieme ai benefici, in altre parole, ne sono derivate anche deviazioni e, quindi, alterazioni di risultato. Una cosa che capita di registrare in non pochi interlocutori è il prevalere di un aspetto sentimentale, ovvero di identificazione proiettiva con le vittime delle tragedie trascorse senza, tuttavia, che a ciò si accompagni la capacità di formulare un giudizio di più ampio respiro, che assuma spessore non solo storico ma anche politico. Laddove, ripetersi non nuoce, la politica è l’intelaiatura della coesione sociale, dei legami tra minoranze e maggioranza. Cosa sta alla base di uno sterminio di massa? Perché lo Stato e le amministrazioni pubbliche possono rivelare, poste certe condizioni, un indirizzo criminogeno? Come va formulato, in questo contesto, il problema del consenso, silenzioso o addirittura partecipe, di una parte della popolazione verso azioni di genocidio nei confronti delle minoranze nazionali? Se da un lato la disposizione sentimentale è del tutto comprensibile, non altrettanto può dirsi della sua produttività su un piano civile poiché l’affermazione di una dimensione soggettiva, basata esclusivamente (o prevalentemente) sull’affetto verso la vittima in quanto tale, non solo non può esaurire la complessità dei fatti storici ma potrebbe addirittura incentivare l’idea – in sé piuttosto controproducente – per la quale l’unico soggetto del passato le cui ragioni hanno un qualche senso è quello che soccombe dinanzi alla forza altrui. Quanto vi sia di pericoloso in questa disposizione mentale, culturale e, alla fine dei conti, ideologica, dovrebbe risultare chiaro a molti. In quanto induce al falso convincimento per cui è ‘buono’ solo quanto sta dalla parte dei vinti, come se tale scomoda condizione costituisse una virtù a prescindere. Si tratta, invece, di una narrazione retorica, con molti pericoli. Segnatamente, tale tipo di approccio è spesso incentivato dagli stessi apologeti e sostenitori dei carnefici del passato, attribuendo a questi ultimi una sola responsabilità, quella di essere stati sconfitti nel corso della loro storia da forze soverchianti, minacciose, brutali. In una rilettura capovolta delle cose, quindi, i colpevoli delle violenze di massa vengono rivestiti di una verginità morale che non hanno mai avuto, assumendo i panni di coloro che sono doppiamente lesi, prima di tutto perché sopraffatti sui campi di battaglia (di una guerra che loro stessi hanno causato, cosa che ci si dimentica opportunamente di ricordare), poi in quanto soverchiati da una sorta di ingiustificata dannazione della memoria, che gli impedirebbe di rivelare le proprie profonde ragioni. Una parte del dispositivo negazionista si muove in tal senso, usando il meccanismo della ‘rivelazione’ del dolore subito da coloro che ne sono stati le reali vittime per traslarlo successivamente sui carnefici. I quali diventano ‘vittime delle vittime’, in un gioco di competizione e appropriazione della condizione di titolare di una specie di diritto universale al risarcimento perpetuo. Un’espressione seducente e pericolosa, che ricorre in più contesti, portandoci dai conflitti del passato a quelli del presente. L’empatia con la condizione di chi soffre è una necessità inderogabile ma non può cristallizzarsi in una sorta di alternativa alla comprensione dei meccanismi che producono (e riproducono) il nesso tra barbarie e modernità. Altrimenti, il rischio è che tutto porti ad un senso di assoluta impotenza, che è alla radice della decadenza non dei ‘valori’ ma della stessa coesione sociale, senza la quale molto, se non tutto, può essere possibile.
Claudio Vercelli
(14 febbraio 2016)