Torino – L’eclisse dell’antifascismo
“L’antifascismo, nella sua storia e nella sua cultura, è stato il momento più alto, di maggiore tensione ideale e morale che l’Italia repubblicana abbia mai vissuto”.
Sono parole tratte da L’eclisse dell’antifascismo (ed. Laterza) di Manuela Consonni, volume presentato nelle scorse ore al Museo diffuso della Resistenza di Torino.
La presentazione dell’opera è stata accompagnata dalle riflessioni di Anna Foa, studiosa dell’età moderna e autrice della prefazione, da Stefano Levi della Torre, accademico, pittore e saggista e da Fabio Levi, direttore del Centro Internazionale di Studi Primo Levi.
È stata Anna Foa ad aprire la serata, definendo il libro come “Non storia dell’Italia ebraica, ma del rapporto fra paradigma antifascista, identità ebraica e storia italiana”. Ad essere sottolineato il ruolo della componente memorialistica, propria dell’identità ebraica, quale “carne e sangue” del paradigma antifascista e del suo profondo legame con la sinistra del dopoguerra. Un paradigma politico poi divenuto culturale. L’allontanamento dalla sinistra avvenuto intorno al 1967 ha portato, infatti, alla separazione della memoria della Shoah dalle esperienze di resistenza italiana al fascismo.
Fabio Levi continua il discorso iniziato da Anna Foa, parlando del processo ad Eichmann come elemento chiave di questa separazione: una parte della Germania è vista in quegli anni come naturale proseguimento del nazismo e le manipolazioni politiche determinate dalla Guerra Fredda fanno il resto, segnando la prima crepa fra comunismo, sinistra e antifascismo a livello globale. Il socialismo, che nel dopoguerra si era servito dell’antifascismo come strumento di autolegittimazione, sembra doversi scontrare con una realtà fatta di compromessi storici e l’emergere di testimonianze delle persecuzioni naziste sembra minare l’alleanza sinistra-antifascismo, mostrando zone grigie dove la sinistra non osa schierarsi apertamente.
Seguono le critiche di Stefano Levi della Torre che indica i punti, a suo parere, più “deboli” del libro: la trattazione del ’68, infatti, non è approfondita e rappresenterebbe un buco significativo all’interno del testo. Si sente la difficoltà a parlare della guerra civile, dei compromessi voluti dalla Democrazia Cristiana. Della Torre parla delle scelte di Pio XII che, sollecitato a scomunicare il nazismo preferì, invece, scomunicare i comunisti e costrinse l’antifascismo a legare le sue sorti al dramma della sinistra. Parla del piano di “pacificazione” del dopoguerra e della mancata epurazione dei fascisti dalle cariche statali, tracciando le mancate analogie con la Francia di De Gaulles che non esitò dal canto suo a compiere un simile processo storico. Della Torre ha proceduto a elencare i rischi intrinsechi di alcune equivalenze moderne: l’anticomunismo equiparato all’antifascismo, l’identificazione delle persecuzioni naziste con le persecuzione razziali rivolte agli ebrei e, per ultima, l’equiparazione di antisionismo ad antisemitismo. L’accademico ha poi offerto una dettagliata spiegazione delle differenze interne a ciascuna di queste equivalenze, mostrando come esse portino a un ragionamento storico e culturale “falsato”. Tuttavia, ha negato il paragone fra antisionismo e antisemitismo. Ha chiuso il suo intervento con una breve citazione di Partigia di Sergio Luzzatto, definito “monumento alla zona grigia” e una critica alla visione vittimologica, secondo la quale tutte le vittime di ogni tragedia si equivalgono.
Manuela Consonni, rettrice del Centro Studi Vidal per l’Antisemitismo alla Hebrew University di Gerusalemme e autrice del libro, ha ringraziato i partecipanti alla discussione per le critiche e ha risposto nel seguente modo a Della Torre: “Il ’68 è sicuramente stato un momento importante, ma personalmente non lo vedo come fondante dell’antifascismo”. Consonni spiega inoltre che l’antifascismo ha, ai suoi occhi, carattere di paradigma nazionale. Ha permesso di porre le basi per una nuova repubblica italiana e, al contempo, ha fornito a essa una “nuova innocenza”. Aggiunge che la conferenza di Yalta ha avuto un carattere di alleanza antifascista e i compromessi che ne sono seguiti, per quanto possano risultare eccessivi ai nostri occhi, erano parsi all’epoca come l’unica via possibile. Il quadro internazionale ne è stato influenzato, così come l’interpretazione di sinistra dell’antifascismo. Critica l’Italia, come precedentemente Della Torre, per la mancata epurazione dei fascisti dalle cariche statali e addita la considerazione italiana per il regime di Mussolini come un “incidente di percorso” che ha contribuito a far sviluppare, sebbene nel male, un nuovo senso di italianità. Parla quindi di un “vizio di forma”, per citare Primo Levi, della nuova repubblica democratica italiana. Sottolinea, infine, l’equivalenza di antisionismo e antisemitismo, argomentando che il primo abbia in sé i connotati dell’antisemitismo classico, adattato e rimodellato per l’occasione.
Una lunga e stimolante conferenza che si è conclusa con molti interrogativi, aprendo nuove domande e mostrando come la sparizione dell’antifascismo di sinistra e la sua evoluzione in antifascismo culturale non sia sufficiente a proteggere l’identità ebraica italiana. Il pericolo è, quindi, dimenticare il nostro ruolo nella storia d’Italia semplificando concetti, tracciando false equivalenze volte a inquinare la delicata memoria storica.
Emanuele Levi
(17 febbraio 2016)