Bioetica – Medicina ed ebraismo: quando inizia la vita
La definizione di inizio della vita, come della sua fine, comporta aspetti scientifici, filosofici, teologici, religiosi, legali. Non tutte le definizioni sono uguali: dipende dal contesto in cui la definizione deve essere applicata. Dal punto di vista biologico, è ovvio che sia la cellula uovo sia la cellula spermatica sono esseri viventi, nel senso che possiedono un metabolismo e – almeno nel secondo caso – anche la capacità di movimento autonomo. Quando l’ovulo è fertilizzato dallo spermatozoo, si forma la cellula zigote, che rappresenta una nuova entità, un nuovo organismo. Il fatto che lo zigote sia un nuovo organismo, diverso dai suoi due componenti originari, non implica però necessariamente che lo zigote sia da considerarsi una “persona”. Secondo la legislazione ebraica, la piena capacità giuridica di persona si acquista al momento della nascita. Prima della nascita, i diritti del frutto del concepimento aumentano gradualmente. Secondo le fonti talmudiche l’embrione, prima del 40° giorno dal concepimento, non è ritenuto che “mera acqua”. Benché non tutte le opinioni attribuiscano a questa affermazione un valore legale assoluto, in genere essa è considerata una motivazione per facilitare, se sussistono altre condizioni, la sperimentazione sugli embrioni e la ricerca sulle cellule staminali embrionali, come anche per autorizzare l’interruzione della gravidanza quando questa metta in pericolo la salute della madre.
Interruzione volontaria della gravidanza
Il feto è tutelato fin dal concepimento, ma il suo diritto non prevale su quello della madre e la sua soppressione è proibita ma non è considerata omicidio: in certe condizioni, per preservare la salute fisica o psichica della madre, può anche essere lecita. Per la legislazione ebraica causare l’aborto è un atto illecito e sanzionabile, perché il corpo umano non è considerato come proprietà privata di cui si possa disporre liberamente. Tuttavia, l’aborto non è punibile alla stessa stregua dell’omicidio, giacché il feto non è considerato – come si è detto – “persona” a tutti gli effetti. L’interruzione della gravidanza può quindi essere giustificata qualora il feto costituisca un pericolo (accertato da medico competente) per la vita della madre, la cui tutela non può mai essere pregiudicata da quella della vita, ancora incerta, del feto stesso. Ogni altra situazione (malformazioni fetali, gravidanza in seguito a violenza o incesto, ecc.), in cui può essere presa in considerazione la necessità dell’aborto per tutelare la salute psichica della madre, costituisce sempre un caso a sé stante, da sottoporre all’esame di un’autorità rabbinica competente, che dovrà tenere conto di tutti i fattori concernenti il singolo problema. I fattori sociali ed economici, da soli, non sono ritenuti elementi sufficienti per consentire l’interruzione della gravidanza.
Procreazione assistita
Considerata l’importanza che il precetto di procreare ha nell’ebraismo, non c’è da stupirsi che una gran parte della discussione bioetica ebraica si sia concentrata sulla ricerca di possibili soluzioni all’incapacità della coppia ad avere figli. Non ci sono generalmente opposizioni di principio alle tecnologie mediche volte a facilitare e risolvere la sterilità maschile o femminile. I problemi si pongono essenzialmente su due livelli: i limiti di queste metodologie e lo status giuridico del figlio concepito in modo diverso da quello naturale. La maggior parte delle autorità rabbiniche contemporanee giudica favorevolmente le tecniche che facilitano il concepimento, come l’inseminazione artificiale e la fecondazione in vitro, qualora sia l’ovulo sia il seme maschile provengano dai due membri della coppia regolarmente sposata (fecondazione omologa). La questione sorge quando l’ovulo o il seme o entrambi non appartengano alla coppia (fecondazione eterologa). In questo secondo caso, i problemi sono molteplici: ad esempio, il bambino sarà considerato figlio della donna che ha fornito l’ovulo (la madre genetica) oppure della donna che ha portato avanti la gravidanza e lo ha partorito (la madre uterina, o madre “surrogata”)? Figli della stessa madre uterina ma di madre genetica diversa sono considerati fratello e sorella? L’uso di seme eterologo è assimilabile all’adulterio? Quali doveri e diritti reciproci sussistono fra genitori e figli in questi casi?
Questi problemi sono stati ampiamente discussi dai rabbini degli ultimi decenni e diverse opinioni sono presenti riguardo a ciascuno dei possibili casi. Al di là della possibilità di consentire a priori fecondazioni in vitro di tipo eterologo, i rabbini sono chiamati a decidere a posteriori, a fatto già avvenuto, sullo status del figlio. Ad esempio, l’opinione di molti rabbini (ma non di tutti) è che, riguardo alla “doppia madre”, la madre giuridica è la donna che partorisce – non quella genetica. C’è anche chi ritiene che, a causa della gravità del divieto d’incesto, entrambe le donne (la donatrice dell’ovulo e la donna che partorisce) siano considerate madri: quindi altre figlie di entrambe le donne sono considerate sorelle del bambino nato con la procreazione assistita di questo tipo e sono a lui precluse (presupponendo che si conosca, o si possa conoscere, l’identità della madre donatrice dell’ovulo).
Fecondazione assistita con seme eterologo
Tutte le autorità rabbiniche concordano nel considerare vietata, a priori, la fecondazione con seme eterologo, ossia non proveniente dal marito della coppia. Solo in casi e a condizioni del tutto eccezionali, e soltanto secondo alcune opinioni, la fecondazione eterologa può essere consentita. È importante rilevare, tuttavia, che la maggior parte dei rabbini ritiene che l’uso di seme eterologo, se pur proibito, non sia comunque considerato adulterio dal punto di vista legale. Ciò significa che la donna che si è sottoposta alla fecondazione eterologa non diventa proibita al marito, come avverrebbe se ci fosse stato un vero e proprio adulterio. La contrarietà dei rabbini alla fecondazione eterologa deriva dalla volontà di preservare l’unità del nucleo familiare, piuttosto che da argomentazioni giuridiche o religiose. Si vuole infatti assicurare che ci siano un padre e una madre chiaramente riconoscibili, che vivano con amore e affetto insieme ai propri figli. L’introduzione di un terzo elemento all’interno della coppia potrebbe al contrario comportare un danno all’equilibrio morale e psicologico della famiglia. La procreazione umana – sostiene Rabbi Jakobovitz – non può essere assimilata all’allevamento di animali, dove il padre è spesso sostituito da provette e siringhe. Il padre deve invece assumersi la responsabilità della propria paternità e provvedere ai figli da lui generati. Né si può pensare che la decisione di chi sia il padre dei figli nati da fecondazione eterologa venga affidata al capriccio arbitrario di un medico, di un tecnico di laboratorio o di un computer. Altrettanto condannabile sarebbe la mancanza di documentazione sulla identità del donatore eterologo, come in genere accade, perché priverebbe il bambino dell’inalienabile diritto a conoscere suo padre e i suoi familiari per via paterna, oltre che esporlo a rischi di matrimoni incestuosi con parenti a lui sconosciuti
Ricerca sulle cellule staminali embrionali e sperimentazione sugli embrioni
L’approccio della tradizione ebraica alla ricerca scientifica è senz’altro positivo e fin dall’antichità numerosi rabbini si sono occupati di scienze naturali e di medicina. L’Uomo è considerato un “partner” di Dio nella creazione del mondo, nel senso che egli ha il dovere di collaborare con Dio nella conservazione e nello sviluppo del mondo e della civiltà. La ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico non sono mai visti come qualcosa da contrastare, bensì da incoraggiare e da mettere in pratica, soprattutto quando possono portare dei benefici per l’umanità, per la cura di malattie e in generale per la comprensione delle leggi che governano l’universo e la vita. La sperimentazione però non può ledere i fondamentali diritti dell’uomo. La ricerca sulle cellule staminali embrionali è quindi lecita ma a patto che sussistano alcune condizioni: l’embrione non deve essere stato ancora impiantato nell’utero materno (lo stato extracorporeo non dà all’embrione uno statuto giuridico neanche in potenza); si tratta di embrioni soprannumerari già esistenti, che sarebbero altrimenti destinati alla distruzione, e non sono stati prodotti appositamente per effettuare la ricerca; l’embrione non deve aver superato il 40° giorno dalla fecondazione; la ricerca è finalizzata a scopi terapeutici; la ricerca si svolge sotto il controllo di un comitato etico e con il consenso informato dei genitori; altre linee di ricerca vanno nel contempo incoraggiate, come ad esempio la produzione di cellule staminali adulte o da cordone ombelicale.
Considerazioni analoghe possono consentire la sperimentazione sugli embrioni e, in particolare, la diagnosi pre-impianto, quando questa sia finalizzata all’identificazione degli embrioni sani che dovranno essere impiantati. Lo scopo è evitare di far progredire la gravidanza di embrioni affetti da malattie genetiche (p. es. la sindrome di Tay-Sachs, i cui portatori sani sono abbastanza frequenti fra gli ebrei ashkenaziti). Questa tecnica è alquanto complessa e può comportare un danno all’embrione, il che limita, al momento, la sua applicabilità, ma se le difficoltà tecniche saranno superate essa potrà sicuramente risultare un’alternativa di gran lunga preferibile all’interruzione della gravidanza. La diagnosi pre-impianto non può però essere autorizzata per altri scopi, ad esempio per scopi eugenetici o per identificare il sesso dell’embrione, salvo casi limite, come quelli in cui una particolare malattia, di cui i genitori siano portatori sani, è legata ai cromosomi sessuali.
Gianfranco Di Segni, rabbino