Lavorare di Shabbat? Il dibattito si fa spinoso
“E il settimo giorno ti riposerai”. Così indica la Torah e così indica la legge israeliana del 1951, titolata genericamente “Ore di lavoro e ore di riposo”, che tutela i lavoratori e ne impedisce lo sfruttamento. Una legge che – spiegano dal Ministero dell’Economia – nasce per tutelare i lavoratori, permettendogli di avere diritto ad un giorno di riposo a settimana nel quale il superiore non può obbligarlo a proseguire le sue mansioni.
La legge in questione non proibisce che le attività commerciali restino aperte durante il sabato ebraico, lo Shabbat, ma si rivolge ai lavoratori che – se di religione ebraica – avranno il loro giorno di riposo corrispondente allo Shabbat, mentre se non ebrei avranno diritto al giorno di riposo previsto dalla loro religione.
Un procedimento piuttosto semplice se non per un piccolo particolare: cosa succede se un’attività gestita da ebrei israeliani rimane aperta di sabato e se i suoi dipendenti sono tutti di religione ebraica?
Succede che il rischio di una multa salatissima dal parte del Ministero diventi sempre più concreta.
Il caso – ultimo in ordine di tempo – riguarda il settore dei vivai, il cui profitto si sostiene in larga parte proprio grazie ai guadagni fatti durante lo Shabbat. Diversi proprietari, infatti, hanno ricevuto lettere di avvertimento nelle quali si invitava a chiudere l’attività di sabato per evitare di pagare penali.
È il caso, ad esempio, del vivaio che Tsipi e Brian Saloner gestiscono da trent’anni nel moshav Sitriya. I guadagni che fanno durante Shabbat – spiegano ad Ha’aretz – costituiscono circa il 30% del totale, ma il problema non è solo una mera questione economica. “Durante il sabato – dice Tsipi – organizziamo dei corsi per tutta la famiglia e delle attività legate all’agronomia. Questa proibizione costituirebbe un vero e proprio cambiamento culturale”.
A condividere la loro posizione, anche la dipendente del vivaio Galit Or: “Tutti coloro che lavorano qui durante Shabbat – ammonisce – lo fanno per una loro scelta personale”. L’ipotesi, sarebbe quella di assumere persone non di religione ebraica; una possibilità che Tsipi Saloner accogle scettica: “Non si tratta di trovare dei commessi – spiegano – Chi lavora qui è legato ad una passione e una competenza unica. Io rispetto chi di Shabbat vuole andare alla sinagoga e chi al cinema, ma non credo il governo debba decidere se le famiglie possano recarsi o meno in un vivaio”. Intanto la stessa Or attraverso Facebook si sta mobilitando, chiamando altri vivai e condividere insieme la causa.
“Posso tener aperta la mia attività di Shabbat, ma durante quel giorno non possono essere presenti dipendenti ebrei e nemmeno io”, spiega al Times of Israel Nir Almagor, proprietario del vivaio Izraela, il cui profitto del sabato corrisponde al 60% del guadagno totale. Una questione, quella dello Shabbat, che va ben oltre un settore specifico e che costituisce una vera e propria questione aperta per il Paese. Il vice presidente dell’Israel Democracy Institute, il think tank bipartisan dedicato a rafforzare i valori democratici d’Israele, Yedidia Stern a proposito ha commentato: “Shabbat è più di una questione religiosa. Penso che la questione principale non riguardi l’ambito legale del rispetto della legge, ma sia più profonda. La vera domanda di fondo è: se siamo in uno Stato ebraico, questo effettivamente cosa significa?”.
Rachel Silvera
(21 febbraio 2016)