Ventuno grammi
d’indignazione
Dunque Lech Walesa, già leader di Solidarnosc, premio Nobel e Presidente della Repubblica polacca, sarebbe stato un “agente comunista”. Quanto meno un uomo compromesso con il vecchio regime, in virtù di collaboratore, con lo pseudonimo di “Bolek”, al servizio della temibile polizia politica negli anni dell’angosciante e opprimente “democrazia popolare”. Prendi un ventilatore, metti del fango (o qualche altra sostanza similare), accendi la macchina e vedi cosa succede. Troppo “divertente”. Detto questo, la singolarità di quella vicenda, dove è in atto un regolamento di conti politici tra le forze conservatrici al governo e il resto dello spettro politico nazionale, rimanda tuttavia ad un problema ancora più ampio, che rinvia al ricorso alla sottile calunniosità per cercare di neutralizzare qualsiasi differenza di opinione.
Se il senso di inazione, al sentimento vivace e contraddittorio sostituisce preferibilmente il risentimento secco e lineare (una sorta di sordità emotiva compiaciuta), così chi è privo di argomenti che non siano l’insulto predilige all’onere del confronto la facile via dell’invettiva accusatoria e dell’enfasi denigratoria. Mentre il primo è nobilitato da sacro furore (siamo in ambito laico, le parole valgono in tale senso e non come oggetti da sottoporre ad una esegesi infinita) la seconda è foderata di apparente “buon senso”, assumendo le vesti della necessaria ma “urbana” rabbiosità dinanzi all’altrui provocazione. La quale si dà per il fatto stesso che sussista una posizione diversa da quella propria, quindi intesa ai limiti di una infrazione ad un qualche comandamento superiore e comunque portatrice di chissà quali nefaste conseguenze. Dice l’infuriato, raccogliendo a raccolta gli astanti: “non sono io ad eccedere nel mio dire e sentire, sono gli altri a minacciarmi e debbo quindi proteggermi. Ciò facendo, mi comporto anche nel vostro interesse”.
L’invito pubblico ad indignarsi, diffusosi negli anni scorsi, in fondo, a ben guardare, è andato a rafforzare questo genere di esito: lontano dall’irrobustire l’impegno al confronto e alla mediazione si è semmai tradotto in un viatico allo scontro e alla disintegrazione dei rapporti. L’operato altrui è stato quindi letto come scandaloso a prescindere, poiché indice non della difesa di un pluralismo, che è precondizione per la democrazia in qualsiasi organizzazione, bensì di una caotica contrapposizione da rescindere e cancellare al più presto. In genere, questo tipo di condotta, al netto delle specifiche motivazioni che la possono generare di volta in volta, nel suo insieme, si chiama proiezione, ovverosia attribuire a terzi il proprio rancore. Risolve tutto molto velocemente, scaricando sull’altro da sé le proprie contraddizioni. A partire dalla rabbia, a tratti quasi paranoide, che non si sa bene come gestire con gli strumenti quotidiani che si hanno a disposizione. Il tutto viene condito dal rimando, almeno in qualche passaggio, in fondo non importa quale (le versioni si rivelano ben presto intercambiabili), al combinato disposto tra identità & tradizioni. Un binomio comodo a prescindere, apparentemente nobilitante ma che in questi casi si trasforma in una sorta di muro (di gomma) mentale, una siepe che si vorrebbe sempreverde ed invece è fatta di sterpi e di rovi, se non di polvere, dietro la quale ci si ripara per nascondere la profonda, inemendabile impudicizia del proprio pensare.
È come una sorta di fuoco di sbarramento, per stabile, di volta in volta, chi avrebbe diritto ad essere considerato interlocutore, e chi invece no. Secondo assetti di relazioni ed una geometria di rapporti di forza variabili, basati appartenente sull’identità di vedute ma, nella prosaica realtà, su un implicito calcolo di opportunismo: non ti considero come persona, per quello che esprimi e per quello che penso tu possa valere ma per ciò che di te mi occorre sul momento. L’utilitarismo manipolatorio è qui camuffato da altruismo. Non è un caso, infatti, che le alleanze fondate sul rancore si sbriciolino molto velocemente, lasciando a volte il posto a inimicizie insormontabili.
Anche se non va mai dimenticato che il sodalizio basato sull’avversione verso terzi è, sul piano dell’identità personale, a volte assai più forte di quello fondato sulle qualità condivise. Della serie: non dico ciò che sono ma mi qualifico per quanto non voglio essere. Anche perché nel primo caso potrei scoprire da avere ben poco da argomentare. L’accusa di tradimento o, al limite, quella di intromissione indebita, di camaleontico camuffamento, comunque di inopportuna compresenza, funziona quindi come una sorta di procedura di garanzia.
Smascheriamo ciò che perturba l’ordine costituito delle fantasie di cui ci alimentiamo. Già lo si è detto ma vale la pena di ricordarlo: sul web queste dinamiche hanno una forte ricorrenza. Il legame basato sulla rabbia è un tratto che rigenera sodalizi e crea alleanze, quanto meno temporanee, comunque profittevoli sul momento, cosa che ai più risulta interessare come unico orizzonte di tempo e di vita. Si tratta, in fondo, di rimestare nei recessi e nei bassifondi del pensiero. Per dare corpo, per l’appunto, all’invettiva come forma di comunicazione e interazione primordiale, elementare, basica, esclusiva. In questi percorsi il fantasma ricorrente non è quello del fascismo, come troppo spesso crediamo, quanto meno noi italiani, ad esso abituati per esperienza storica, ma dello stalinismo. Che fu regime storico ma anche e soprattutto metodo e sostanza nelle relazioni sociali. Esso fondò un criterio dove alla rabbiosa accusa contro qualcosa o qualcuno, l’una e l’altro ritenuti responsabili di colpe universali e inemendabili, si accompagnava il richiamo alla necessità di purgare il corpo di una nazione, di una società, di una comunità dalla presenza degli elementi impuri, i “nemici del popolo”, nascosti tra le insospettabili pieghe delle proprie stesse file. Era quasi un latrato, esteso come un urlo liberatorio alla folla dei compartecipi, quelle “anime belle” che poi, quando il vento avesse tirato in senso opposto, avrebbero detto di sé che nessuna colpa hanno mai condiviso, richiamandosi semmai ad una sorta di verginità morale di fondo che corrisponde all’amoralità che da sempre li accomuna.
I meccanismi diffamatori sono, nel loro agire coordinato e continuativo, una macchina che gli uomini di Stalin hanno saputo portare alla massima potenza. Poiché operano non solo all’esterno del gruppo di appartenenza ma anche (e soprattutto) all’interno, isolando e frantumando qualsiasi diversità pluralistica nel nome di una presunta ortodossia, il cui vero tratto è l’asfissiante pedagogismo che si applica sulla collettività come se questa fosse composta da infanti ritardati, ai quali somministrare non la sapida minestra della responsabilità ma il brodino dell’incoscienza mascherata, per l’appunto, da legittimo furore. Quanto ci sia di attuale in questo modo di porsi dinanzi alla realtà del mondo ce lo dicono tanti fatti, alcuni molto grandi, altri più piccini ma non per questo meno deprimenti.
Claudio Vercelli
(21 febbraio 2016)