Ariela Bohm, una divina leggerezza
Coerenza e conformità accompagnano da sempre la creatività di Ariela Böhm e cifra identificativa del suo modus operandi è, piuttosto che un’omogeneità di stilemi produttivi, il pensiero germinale, l’idea ispiratrice. Una costante nella sua produzione è infatti l’inesauribile ansia verso la sperimentazione di nuove tecniche come di nuovi materiali e il suo fare arte – sorprendente per la capacità e la scrupolosità con la quale esplora, analizza, passa al vaglio aspetti che della vita sono origine e ragione – si fonda su una scientificità radicata e consapevole che procede in egual misura tra spaccati di macrocosmo estremamente grande e dettagli di microcosmo infinitamente piccolo. Rivelando un entusiasmo ed un coraggio non comune, l’artista tenta “di decifrare tanto il mondo circostante quanto l’interno di ciascuno di noi”. La sua scelta di un percorso creativo atipico e l’utilizzo di tecniche e materiali eterogenei si calano in quella polifonia di modi di operare che, dal Novecento, ha dilatato il linguaggio dell’arte visiva. Questo spettro di possibilità espressive, nel quale ogni mezzo viene inglobato, generano in Ariela Böhm modalità esecutive che, lontane dall’essere semplici giochi immotivati, potenziano invece il valore dell’invenzione. La sua si manifesta come una ricerca radicata in un filone di sperimentazione che mai viene meno al rispetto per le leggi della materia costruttiva di volta in volta prescelta e che ha ben chiaro quanto occorra, oggi più che mai, che la progettazione dell’idea e la sua messa in atto siano impeccabili anche sul piano pratico.
All’artista contemporaneo è concesso, se non addirittura richiesto, di slittare tra competenze diverse: purché egli disponga di abilità specifiche che gli consentano di creare secondo il filo di una progettazione precisa e puntuale. Non è ammessa nessuna mancanza di rigore, né sul piano del pensiero e né su quello della realizzazione. Non basta l’idea: occorre invece saperla tradurre in un dispositivo efficace.
Con un fiorire sorprendente di approcci tecnici, vera e propria “crosspollination tra linguaggi” (per dirla come Germano Celant), Böhm ci fa partecipi di emozioni e sentimenti che seguono filoni apparentemente estranei ma intimamente legati. Ma secondo l’accezione di Maurice Merleau-Ponty “Non si tratta mai d’altro che di far progredire il medesimo solco” e “di andare più lontano nella stessa direzione, come se ogni passo fatto esigesse e rendesse possibile un altro passo”. Ciò che muove la creatività di Ariela – attraverso un lavoro faticoso e a tratti elaborato – è la voglia di sondare le infinite forme del pensiero umano: il suo di solco è incentrato in quel imponente tessuto di elementi che cuce in un unico racconto il palinsesto di ciò che siamo, percepiamo, ricordiamo, raccontiamo. Da anni ne scandaglia la trama, ne indaga l’intreccio, ne codifica la forma: sono del 1988 Cellule nervose II e III in cui la terracotta bianca disegna labirinti della mente e della memoria, intesse ragnatele di pensieri, sentimenti, emozioni. In Là dove scorre il pensiero del 2003 la ceramica accoglie pagine impigliate in una intelaiatura di cavi: l’orditura del pensiero affastella frammenti di epifanie emotive e in Pensiero femminile, le donne pensano in reti di fattori collegati (2004) scava nell’universo femminile avvalendosi ancora della scrittura come metafora del mondo cognitivo.
La guida di una grande scienziata come Rita Levi Montalcini, ancor più che gli studi in Scienze Biologiche, legittimano la rigorosità dello scienziato in questo tessere il filo della sua ricerca della quale forza, energia e potenza immaginativa sono elementi chiave per una corretta lettura. Ma è su pura passione che essa affonda le radici, vuoi per originalità di scelte artistiche vuoi per specificità di tecniche e materie. Niente è lasciato all’improvvisazione o al dilettantismo e forte degli studi sull’utilizzo della ceramica, della tornitura e dell’incisione, sullo scorcio degli anni Novanta, si avvale anche della tecnica Raku. Per esaltare una complessità essenziale che sottolinei la volontà di rifuggire da perfezione e levigatezza, l’artista esaspera fratture, provoca faglie, lascia tracce di vita. La terracotta, percorsa da una fittissima craquelure, saggia la trasformazione e l’impermanenza materica, il suo cedere all’implacabile forza del tempo, quindi l’ineluttabile deperibilità e la sua mortalità. In Frammenti dal tempo l’argilla viene plasmata in un bassorilievo di reperti arcaici i cui cromatismi abbrunati riflettono giochi chiaroscurali e contrapposti di luminosità. E in Foresta impossibile (1991) il bianco sacrale dello smalto (una seconda pelle che riveste e protegge la terracotta) raggruma la memoria, fossilizza la storia: la natura viene reinventata e assume una connotazione puramente mentale e metaforica. Ogni mimesi viene rimossa per lasciare spazio a una interpretazione del reale personalizzata e fantastica. Il magma primordiale, ribollente e solidificato, di Esplosione, scultura del 1998, ingloba “frammenti di me ancora sconosciuti e in parte indecifrabili” – dice l’artista. Lo specchio restituisce la realtà che fronteggia con una visione interiorizzata e inquieta, allo stesso tempo personale e collettiva.
Sotto la definizione di pagine di terra, di fuoco e di luce l’artista si cimenta, all’altezza degli anni Duemila, sul tema della lingua scritta, analizzata attraverso forme espressive che inglobano segni, forme, colori e parole. Metafore: di vita, di cultura e di comunicazione. Di presenza umana che da salda si fa insicura e frammentata come Sul fragile supporto dell’esistenza o cede sotto il peso di un vivere tormentato come in Crollo. Böhm orna la materia di lettere in rilievo, veri sigilli per stampare e ristampare pagine di profondità identitaria, di senso di appartenenza alla sua storia e alla Storia. Su formelle di Raku annerito e accartocciato dalla memoria di un passato lontano, i grafemi, illuminati da chiaroscuri e da colorismi metallici, riempiono tavole bibliche in All’alba della scrittura mentre in Cercando(1993), disposti in sequenza ordinata e regolare, trovano il loro spazio naturale fra lembi di terracotta arricciata. Ingigantiti, sino a sembrare solo fiamme, perdono ogni accezione linguistica in Mezuzah e diventano vero crogiuolo di riferimenti culturali nell’energia compressa di Torre di Babele. Qui la parola, intrappolata e soffocata dal cemento, è alla ricerca di un nuovo significare che spezzi il silenzio. Al centro di tutto è il linguaggio che deve essere potenzialità, base del costruire e del comunicare: linguaggio che accomuna percorsi di umanità differente e parallela. Nel grande murale La leggerezza della cultura (2008) del Centro Pitigliani di Roma un’eruzione di caratteri ebraici si libra nel bianco luminoso di due grandi pareti concave: numerosissime e sovrapposte nella parte alta si fanno più rade verso il basso, quasi sospese in una divina leggerezza.
Identità e comunicazione sono il tema di Io e l’altro nel quale in una rete dorata si aggrappano due mondi separati, due individualità differenti: il contrasto cromatico fra l’oro e il nero evidenzia differenziazioni ma è ricucito al centro da una pioggia di parole. Un volere spirituale di coesione che ripristini relazioni, ristabilisca contatti ma soprattutto trovi una radice unica che solidifichi la collettività.
Il tema della memoria, connesso all’uso del linguaggio e della scrittura, è caratterizzante in un operato che si ancora a metafore di popolo e di cultura, ma soprattutto di appartenenza. Increspature I e Increspature II, tutte del 2009, giocano sulla giustapposizione di bianco e nero, lucido e opaco. Le asperità, profonde e diseccate del Raku accentuano reperti archeologici di antichi testi ritrovati e ribadiscono quel legame profondo e arcaico che in Recisione impossibile (2013) diviene indissolubile. Fili dorati risaldano qui la frattura di una tavoletta, legano inscindibilmente le orme di umanità impresse sulla materia scura, suggeriscono una fusione radicata che travalica ogni possibile, immaginabile scissione. Un sentimento forte, religioso e culturale, fa da collante nell’ideologia di Böhm ne rimarca l’orgoglio e ne sottolinea la specificità interiore.
Nel 2004 l’artista si cimenta anche con la dimensione monumentale della scultura. Che la memoria di ciò che è stato si fonda con la materia che ospita il nostro pensiero non è l’unico esempio di questo suo coraggio sperimentale, ma forse il più saliente. L’opera, realizzata per il cimitero di Bolzano a ricordo dei cittadini altoatesini scomparsi nelle deportazioni della seconda guerra mondiale, consta di due prismi a sezione triangolare che si intersecano verticalmente. Lo spettatore, grazie al percorso a spirale necessario per raggiungerla, è invitato ad una modalità di lettura articolata. Da un lato una visione graduale permette la decodificazione dei dettagli esecutivi: il contrasto del bronzo fra lucido e opaco, le ramificazioni che avviluppano le tavole a formare reti di pensieri, le sagome umane stilizzate, la texture di lettere in rilievo prese dalla preghiera per lo Yom Kippur. Ma solamente tramite una visione dall’alto, è possibile realizzare che i due prismi formano un maghen David: la necessità che la visione dettagliata e quella globale si intersechino per rendere effettiva la compenetrazione con l’opera d’arte, viene ancora una volta ribadita.
Nell’investigazione di Böhm l’acqua è un punto nodale: ora quieta e stagnante, ora ribollente di movimento vorticoso, è sempre e comunque fonte di insostituibile vitalità. Contemplata in tutte le sue potenzialità, di trasformazione e creatività, sprigiona energia, rappresenta linfa vivificante e collage di stati d’animo. E’ materia prima e alfabeto con il quale il racconto prende forma, le sue innumerevoli differenti condizioni ne rappresentano la veste grafica. Nella serie Percorsi (dei quali in mostra sono esposti Percorsi II del 1995 e Percorsi VI, Delta del Gange del 2006) diramazioni e affluenti scavano il letto di un fiume fra scabri brandelli di identità soggettiva e corale: l’alveo ingloba vestigia, l’acqua scorre in rivoli lenti, tracima in labirinti la cui visione surreale elide ogni profondità prospettica. Cromie soffici o iridescenti si fanno strada fra placche contrastanti e descrivono uniformi meandri di un’ancestrale simbiosi fra terra ed acqua, fra la fluidità di quest’ultima e lo scorrere del tempo. Ariela, raggelando e pietrificando, mette in pausa questo perenne, naturale fluire. E’ un fermo-immagine che consente l’indagine dei valori fondanti di un’essenza primigenia e assolve ad un dovere di riflessione che dia tregua al vivere convulso. Nell’arco degli anni nascono i tre cicli Acque. Quiete, Acque. Movimento e Acque. Cristalli. Nel grande pannello del 2006 Acque. Cristalli formelle di Raku vengono fissate su un letto di piombo. Manipolato in morbide increspature il metallo da materia cupa e uniforme si trasforma in un cielo intriso di riflessi costellati di cristalli di neve. In Acque. Movimento (2005) è invece il silicone, steso a pettine su superfici piatte e scure di un mare violaceo, che ricrea, in ondulazioni ora concentriche ora filiformi, lo sciabordare e il ritirarsi di gonfie onde oceaniche, e origina il vortice spumeggiante in Gorgo, la grande scultura esposta nel 1997 in occasione di una mostra a Camerino e ora anche a Padova. Lo sguardo si lascia catturare dalla fascinazione del moto ondoso in una visuale ravvicinata e prossima. Ad una dilatata panoramica aerea si affida, invece, l’analisi in Dall’alto (1994), dove ideali altezze a campo lungo rendono astratta e immateriale ogni realtà. Stimolata dal potere di una sperimentazione sempre nuova di materiali sempre originali, l’artista utilizza la sabbia che ricoperta di pigmenti nelle variazioni dei blu, sfumati o più marcati, circoscrive lembi di terra emergenti da acque immote e fonde. La medesima visione aerea, abbandonata la dimensione panoramica, si fa rarefatta e glaciale in Acque. Quiete dove corrugamenti e rilievi si alternano a piattaforme scure o lattiginose: è matericità informe che aggruma stucco e alluminio per guidare l’attenzione verso immagini di mondi lontani e fantastici.
Con l’ausilio di Rino Regoli, sperimenta nel 2004 un’alchimia degna della tradizione di antiche botteghe, che da luogo a delicate e immateriali proiezioni di ombra e luce, così da trasformare un’impalcatura rigorosamente scientifica, come la struttura neuronale, in una ragnatela dall’effimera leggerezza di rugiada. In Creando connessioni le particelle d’acqua restano avviluppate in giochi di luminosità rifratta e creano ombre rilucenti colme di vita e di pensiero. Come filigrane sottili e areate articolano agglomerati di coesione di un sentire umano. Eseguito con la medesima tecnica, Ombre di luce. La vita allude ad architetture interiori di meccanismi di pensiero dove il coesistere essenziale di conscio e inconscio, è evocato dal bianco della tela arricciata che è sipario a frammenti di una vita cosciente, fatta di gocce stillanti, cascate copiose, vortici gorgoglianti. Un paesaggio accidentato puramente mentale pervade Reti neuronali del 1992 in cui la craquelure, lasciatasi alle spalle la solidità del Raku, disegna su di un substrato di sabbia arida tortuosità ramificate, esigue come rigo di matita.
Negli ultimi lavori del 2015 il fulcro è ancora il pensiero umano e punto di partenza è il dato scientifico, che per raggiungere la sua consistenza di oggetto d’arte deve necessariamente sottostare a trasformazioni e rielaborazioni. L’indagine assume ora tutte le connotazioni di un’analisi fatta al microscopio: l’occhio del ricercatore decifra tracce mnemoniche generate dalla decodificazione di informazioni diverse (visive, acustiche, verbali, tattili o semantiche) e le propone come riflessione sulla capacità della mente umana di rielaborare idee, consolidare ricordi, immagazzinare memoria. Con Ricordando, progressione di tre sculture in bronzo, Ariela si avvale ancora una volta degli studi all’Accademia di Belle Arti di Roma e dell’apprendistato presso la fonderia Anselmi. Il tessuto solido e compatto nella prima opera si fa via via più fragile sino a raggiungere, nella terza, la parvenza di una trina elegante nelle cui maglie le idee si consolidano e si definiscono mentre nel grande ciclo Qualità del pensiero si aggrappano, incrostazioni materiche e solide, al colore fosco o rutilante della tela. Le sequenze Giorno, Notte, Risveglio, Declino si alternano e caratterizzano modalità e qualità di pensiero differente nel corso di una giornata e nell’arco di una vita. Sulle tavole si dispiega una struttura complessa, a più dimensioni, dove un bagaglio di emozioni e sensazioni, attitudini e ritmi emotivi ricamano le trame di un vivere che a volte incede sicuro, altre si sofferma, altre ancora incespica sofferente sino a rallentare.
Inviti rappresenta un corpus di dodici sculture a tutto tondo, in travertino, alabastro, resina e metallo, in cui la forma viene abbozzata brevemente; non rappresenta, suggerisce. La mente dello spettatore è invitata a compenetrare l’opera, a lasciarsi andare piuttosto a sensazioni o pensieri evocati. Non ciò che l’artista vuole rappresentare deve essere motivo di indagine quanto piuttosto di cosa e quanto l’opera suscita in ognuno di noi. E questo reticolato di emotività, ora sottile ora maggiormente rappreso, avviluppa e abbraccia le forme disegnando percorsi, lasciando tracce di sé.
Nella creatività di Ariela Böhm artista e scienziato, uniti in una produzione vasta quanto articolata, condividono un’analisi attenta e circostanziata dei fenomeni naturali nonché una ricerca primaria della struttura stessa. Ma, travalicando il mero dato scientifico e attraverso un’operazione alchemica di trasfigurazione della materia, Ariela partecipa direttamente al potere creativo della natura la quale, arricchita di emozione e mistero, diviene il fulcro della sua arte.
Marina Bakos – Pagine Ebraiche marzo 2016