JCiak – L’uomo che accese Spotlight

Marty BaronAl cinema i giornalisti funzionano a meraviglia e Spotlight non fa eccezione. Solo che qui i luoghi comuni e i romanticismi finiscono in mille pezzi e si vede come funziona sul serio un’inchiesta giornalistica, una di quelle destinate a fare epoca. Il film di Tom Mac Carthy ci riporta al 2001, quando al Boston Globe arriva un nuovo direttore editoriale, Marty Baron. Ebreo, 47 anni, di poche parole e nessun senso dell’umorismo, Baron è uno che non molla. Sarà lui a spingere il team di giornalisti investigativi chiamato Spotlight a occuparsi di un caso di pedofilia che ha visto come protagonista un prete cattolico, padre John Geoghan. Ben presto verrà alla luce una catena di abusi di proporzioni inimmaginabili. E malgrado pressioni e ostilità di ogni genere, grazie al coraggio di Baron la verità arriverà in prima pagina in uno scandalo di livello internazionale, che chiamerà in causa fino ai più alti livelli della Chiesa.
In corsa per cinque Oscar, Spotlight è un gran film sul giornalismo, che a tratti riporta alla memoria Tutti gli uomini del presidente (1976) di Alan J. Pakula o Insider (1999) di Michael Mann. L’inchiesta raccontata da Tom Mac Carthy non vive di folgoranti colpi di scena, inseguimenti o sparatorie ma è minuzioso lavoro d’archivio, telefonate a catena, lunghe attese, testimoni riluttanti, stanchezze infinite. Eppure, grazie a un cast d’eccezione, la tensione non cala e si rimane inchiodati fino all’ultima scena come nei migliori thriller.
Michael Keaton, nei panni di Walter “Robby” Robinson che coordina l’inchiesta, non perde un colpo. Mark Ruffalo che interpreta Mike Rezendes, il giornalista che darà una svolta al caso, è sempre più bravo mentre Rachel Mc Adams, smessi i boccoli e le smorfiette da “bella del Sud” che l’hanno resa famosa, regge l’unico ruolo femminile in modo impeccabile. (Sia Ruffal sia Mc Adams sono candidati come migliori attori non protagonisti).
Il protagonista reale, il direttore che mette in moto l’inchiesta, finisce invece in secondo piano. Interpretato da Liev Schreiber, Marty Baron – oggi direttore esecutivo del Washington Post – è dipinto come uomo di poche parole e poco sense of humour, sempre imbronciato, impermeabile agli umori dei giornalisti di Spotlight. Il film mostra a più riprese come la Boston cattolica serri i ranghi contro l’indagine che finirà per scoperchiare la sistematica copertura da parte delle gerarchia ecclestica degli abusi sessuali di ecclesiastici. E si vede bene come non perda occasione per ricordare al direttore ebreo Baron che non è dei loro, tanto che in una scena memorabile il cardinale Bernard Law arriverà al punto di regargli un ponderoso libro di catechismo.
Spotlight fa capire che l’essere ebreo di Marty Baron abbia giocato un ruolo di peso nella sua determinazione a portare avanti l’inchiesta e nel suo coraggio di renderla pubblica. Se non altro in una maggiore autonomia e libertà di giudizio. “La gente mi chiede perché mi sono concentrato sul suo essere ebreo. La risposta è che è quello che fece allora Boston”.
Eppure il diretto interessato è rimasto sorpreso da questo accento sulle sue origini. Anzi, come riferito di recente dal Jewish Journal, è rimasto sorpreso da questo aspetto. Al tempo dell’inchiesta, ha raccontato, nessuno aveva mai accenato alla sua religione come a un problema. Nemmeno il catechismo donatogli dal cardinale lo aveva fatto messo sull’avviso. “Pensai davvero che dovevo leggerlo, ma era un libro davvero spesso e avevo altro da fare”.
Nel 2001 il daffare di sicuro non gli mancava, visto che le indagini sulla pedofilia nella Chiesa presto s’intrecciarono con la tragedia delle Torri gemelle. Pur in questa delicata, Marty Baron, arrivato al Boston Globe dopo essere stato al Miami Herald, al Los Angeles Times e al New York Times, lavora con passione, guidato da un’etica giornalistica rigorosa.
Mentre il caso di pedofilia si allarga a macchia d’olio, si rende conto che il fatto di essere ebreo può influire sulla percezione che il pubblico ha della storia. La sua identità è solida e mai celata. Suo padre è scappato dalla Germania nel 1936 rifugiandosi in Palestina, dove ha sposato la madre di Baron, nata lì, insieme a cui poi si è spostato a Parigi e infine negli Stati Uniti. Marty Baron, che si dichiara reform e non osservante, viene da una storia di quelle che lasciano un segno nell’anima e lo sa.
“Ma cosa potevo fare? Lasciar perdere l’inchiesta non era un’opzione”. Si affida dunque alla professionalità dei reporter di Spotlight (“grandi giornalisti, sapevo che si sarebbero avvicinati alla storia con cura”) e al suo senso del dovere. Per lui è un periodo duro, in cui lo sorregge solo la ricerca dell’eccellenza. Alla fine qualcuno lo contesterà, ma la grande maggioranza dei lettori mostrerà gratitudine. “La gente non era arrabbiata con noi, ma con la Chiesa”. “I lettori vogliono quell’autenticità che viene da un lavoro giornalistico onesto e profondo”. E quella di Spolight non era stata una crociata contro nessuno, ma una battaglia per la verità e la libertà d’informazione.

Daniela Gross

(25 febbraio 2016)