Pochi ma buoni. O tenerissimi La ricetta giusta per il rabbino

barchetta albertiniI rabbini italiani e la giunta dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane stanno portando avanti in queste settimane un confronto, caratterizzato da apertura e unità di intenti, alla ricerca di un assetto ordinato e coerente nella regolazione dei rapporti di lavoro fra rabbini e comunità ebraiche. A partecipare ai lavori, il presidente dell’Assemblea dei rabbini d’Italia rav Giuseppe Momigliano assieme ai rabbini capo di Roma e di Milano, Riccardo Di Segni e Alfonso Arbib, al rav Alberto Funaro (in rappresentanza dell’Ari) e al rabbino capo di Padova Adolfo Locci, che è anche componente della Giunta e della Consulta rabbinica dell’Unione (presente agli incontri anche il rabbino Ezra Hariri Raful, ospite della Giunta in quanto referente rabbinico per il progetto del marchio nazionale italiano della casherut “K.it” varato dall’UCEI).
Pubblichiamo di seguito una riflessione per Pagine Ebraiche di rav Riccardo Di Segni, scritta nel periodo in cui si discuteva la riforma statutaria dell’UCEI che fu poi approvata nel dicembre 2010. Il disegno è di Giorgio Albertini.

L’attuale assetto delle Comunità ebraiche in Italia prevede la presenza di un rabbino capo come “organo” istituzionale, accanto al presidente e al Consiglio. Nel tumulto transizionale di questi mesi è normale che questo ruolo sia messo in discussione. Il dibattito non è nuovo né locale ma dalle nostre parti, per gli assetti storici che ci siamo dati, assume caratteri particolari. Negli USA, dove vivono milioni di ebrei, c’è una grande possibilità di scelta: tutte le frange possibili dell’ortodossia, dalla più charedì alla modern, i conservative, i reform e quant’altro. Se il rabbino della sinagoga all’angolo ti sta antipatico, anche se è della tua “denomination”, perchè fa troppa politica o perché le sue derashot sono terribilmente noiose o perchè il gefilte fish del kiddush è troppo dolciastro e non come lo faceva tua nonna, hai un’altra schul a un isolato più lontano. Il mercato è libero, l’offerta abbondante. In Israele la situazione è un po’ differente. La scelta di denominazioni non tanto ortodosse è meno ampia, ma anche lì tra gli ortodossi puoi scegliere chi ti va più a genio. A confronto, la situazione dalle nostre parti è disarmante. Siamo come un supermercato di tipo discount dove la scelta è minima. O prendi o lasci. Con la differenza che almeno al discount qualcosa risparmi. Qui se il rabbino è noioso, il chazan stonato, la gente decisamente antipatica, la sorveglianza non cordiale, le possibilità di scelta sono poche. L’unica molte volte è quella di non andarci per niente al Beth HaKnesset. Quando poi il discorso si sposta a livello più centralizzato, nell’organizzazione della Comunità, il conflitto è ancora più doloroso. Di rabbino capo ce n’è uno solo. Puoi farlo “revocare”, ma non è una procedura semplice. Più spesso ci devi convivere, nella speranza di trovarne presto uno migliore, o con la magra consolazione che un altro sarebbe ancora peggio. Mercato povero di offerte, identità complesse (o plurime come si dice ora), assetto giuridico della Comunità poco elastico sono gli ingredienti base di una ricetta che crea continue tensioni. Si aggiungano gli ingredienti più recenti, quelli della trasformazione dell’identità ebraica in Italia. Prima c’era una massa di “appena osservanti” ma con forti radici identitarie, che si ritrovavano anche nell’identità politica di sinistra antifascista. Oggi il quadro è più variegato, crescono gli osservanti e le persone che studiano, i riferimenti politici esterni vacillano. Ma buona parte della comunità vuole o vorrebbe rimanere unita. Stenta a farlo quando non si riconosce in una dirigenza politica “militante” che dà l’impressione di pendere verso una parte politica piuttosto che un’altra o propone modelli identitari acritici con Israele. Stenta anche a riconoscersi in un rabbinato che per forza di cose è un po’ differente dal passato. Perché il pubblico di osservanti chiede dei servizi religiosi all’altezza delle sue esigenze, degli insegnanti che si dedichino ad insegnare molto di più della traduzione letterale della Torah e in generale una difesa delle istituzioni religiose senza compromessi. Un rabbinato che risponda a queste esigenze genera incomprensione, rischia di far paura o perlomeno ispira diffidenza, potrebbe allontanare chi non fa scelte abbastanza forti di osservanza religiosa (o dargli la scusa per allontanarsi). E allora si dice che questo rabbinato spacca la Comunità, è quello dei “pochi ma buoni”. La soluzione quale sarebbe? Un rabbinato tenero, meno rigido, pastorale, tollerante di tutte le diversità. Perché si suppone che quello di ora sia tosto e rigido, non comunicante se non repulsivo e sostanzialmente intollerante. Ma un conto è il carattere delle persone singole, che può essere più o meno simpatico, un altro la funzione istituzionale. Cerchiamo di smontare un po’ l’argomento della rigidità. E’ facile dimostrare, con un gioco di parole, che si tratta di una rigidità molto elastica. Perché qualsiasi figura rabbinica ha un suo modello di riferimento, che può andar bene per un certo pubblico di osservanti, ma non va bene per molti altri osservanti. Sì, proprio gli osservanti, non gli ebrei laici, poco osservanti o riformisti. Un rabbino standard italiano, anche di quelli considerati più rigidi, sarebbe (è) considerato eretico in altri mondi. E’ impossibile accontentare tutti. Un rabbino meno rigido dividerebbe comunque la sua comunità, magari in altro modo, ma la dividerebbe. Bisogna poi vedere chi è che divide, se è il rabbino o quella parte di pubblico che sbandiera la bella causa del pluralismo ma in sostanza non accetta che la linea del rabbino sia diversa da quella personale. C’è poi uno strano gioco nostalgico, in cui i predecessori vengono sempre rimpianti, al confronto con i rabbini attuali, dimenticando che quando erano loro in funzione dovevano subire (dagli stessi che ora li compiangono) le medesime accuse. Il destino di chi è in carica è la critica al presente e la (incerta) beatificazione postuma. Nella critica di alcuni contro la rigidità affiorano poi talvolta aspetti incoerenti. E’ come se si cercasse in un atteggiamento più facilitante del rabbino una sorta di assoluzione per le scelte personali. Ma chi è veramente laico se ne dovrebbe fregare di come il rabbino lo giudica, ammesso che lo giudichi, lasciandogli la libertà di seguire anche lui (o almeno lui) un modello coerente. Si pretende dal rabbino quello che non si chiederebbe al proprio ingegnere, medico, avvocato. A chi ti costruisce la casa non si chiede di fare calcoli arruffati, al medico che ti cura non si chiede una diagnosi e una terapia approssimativa, all’avvocato che ti difende non si chiede di essere ignorante della legge e debole nella controversia. A chi si chiede di essere meno rigido? Al vigile che ti fa la multa, all’ispettore del fisco, al professore che ti esamina, ovviamente quando affrontano il tuo caso personale (ma non quando vorresti punire chi ti ha investito, o un evasore recidivo o un professore che ha dato la licenza agli asini quando tu ti sei ammazzato sui libri per superare gli esami). A quali di queste figure professionali è paragonabile il rabbino, in particolare il rabbino capo? Riflettiamoci bene prima di chiedergli di essere “meno rigido”, o più semplicemente quando si chiede di ridimensionarne il “potere” facendo scomparire di fatto il rabbino capo dal nuovo assetto dell’ebraismo italiano.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
Pagine Ebraiche, maggio 2010