Ticketless – Senilità

cavaglionOsservare nella sua integrità la parabola di Umberto Eco impone una riflessione sul trascorrere del tempo.
Si è letto molto in questi giorni sul significato della sua opera. La cultura ebraica italiana gli deve molto, non solo per le cose che ha scritto, giustamente evidenziate in questo portale: aggiungerei che, come ha insegnato agli italiani a non vergognarsi di Mike Bongiorno, così ci ha insegnato a non vergognarci della immagine che degli ebrei è venuta dai romanzi d’appendice dell’Ottocento. Non è però questo il lascito principale. Dispiace che non si sia scritto nulla della sua capacità di invecchiare bene, perché non tutti gli intellettuali italiani sono invecchiati o stanno invecchiando nello stesso modo di Eco. La prima cosa che mi ha colpito, aprendo i giornali il giorno della sua morte, è stato apprendere che avesse già 84 anni.
Ascoltandolo o leggendolo si percepiva sì la stanchezza, e nei romanzi una certe ripetitività, ma le senilità che i media ci costringono a tollerare – infondono in noi un mare di malinconia – sono purtroppo altre. Eco ci è sembrato fino agli ultimi suoi giorni di vita un ragazzino, rispetto ai Premi Nobel che pontificano senza essere pontefici, a giornalisti non paghi di aver già scritto tre autobiografie che corrono in televisione annunciandone una quarta, una quinta.
Eco ci lascia in eredità, più che i suoi libri, l’immagine di una senilità operosa fedele alla propria laicità, senza manie di protagonismo, senza il bisogno di scrivere lettere a papa Francesco o immedesimarsi in un papa per salire su un palco a benedire Grillo.

Alberto Cavaglion

(2 marzo 2016)