Venezia, i 500 anni del Ghetto
Quando la storia vale una presa di coscienza
“I cinque secoli del primo ghetto del mondo. Dai diritti negati all’emancipazione”.
È una riflessione di ampio respiro e a più voci quella che sarà sviluppata mercoledì 9 marzo alle 11.30, presso la sede dell’Associazione Stampa Estera a Roma, nel corso della conferenza organizzata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per far conoscere e divulgare il ricco programma di iniziative che si svolgeranno a Venezia in occasione del Cinquecentenario del Ghetto lagunare.
Interverranno nel corso della conferenza stampa Renzo Gattegna, presidente UCEI; Luca Zaia, presidente Regione Veneto; Luigi Brugnaro, sindaco di Venezia; Shaul Bassi, coordinatore scientifico comitato per i 500 anni del Ghetto; Donatella Calabi, curatrice della mostra “Venezia, gli Ebrei, l’Europa”; Toto Bergamo Rossi, fondazione Venetian Heritage Onlus; Cristiano Chiarot, sovrintendente della Fondazione Teatro La Fenice; Mariacristina Gribaudi, presidente Fondazione Musei Civici; Paolo Gnignati, presidente Comunità ebraica di Venezia.
L’incontro costituirà inoltre l’occasione per presentare i numerosi servizi e approfondimenti che appaiono sul numero di marzo del giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche. A partire dal dossier “Venezia – I 500 anni del ghetto”, curato da Ada Treves, che costituisce un prezioso riferimento per meglio cogliere il significato di questo impegno attraverso approfondimenti e pagine ricche di memoria ma anche di futuro.
(La foto è di Paolo Della Corte)
Quando la Storia vale una presa di coscienza
Il Ghetto di Venezia ha una storia molto particolare rispetto ad altre Comunità che, nella lunga diaspora ebraica, hanno vissuto un’esperienza analoga di segregazione coatta. Nonostante Venezia detenga il copyright del Ghetto, diversamente da Roma dove le condizioni di miseria e vessazioni perpetrate dalla Chiesa determinarono anche arretratezza sociale e culturale, nella Comunità lagunare, malgrado la segregazione fisica, persisteva una ricca vita culturale caratterizzata da una forte interazione fra ebrei e ambiente esterno. Quella del Ghetto di Venezia è una storia di presa di coscienza di sé anche in relazione all’altro. La condizione delicata degli ebrei veneziani è la metafora di un bivio che obbligava a compiere scelte forti e a prendere decisioni ferme ed al tempo stesso aperte al mondo circostante. Intellettuali e Rabbini, come Leone da Modena (1571-1648), testimoniano come l’appartenenza alla minoranza ebraica imponeva a questa diversità una funzione positiva, in una prospettiva di chi avendo consciamente optato per affermare la propria diversità, si doveva confrontare col problema di difenderla e di darle un senso privo di residui di emarginazione e di frustrazione. Basti pensare come, in questa ottica, Leone da Modena, introdusse nella sua accademia di studi religiosi, insegnamenti di canto, danza, scrittura e latino cercando una mediazione fra insegnamenti religiosi e cultura “secolare”. Malgrado la struttura angusta dei ghetti ed i cancelli, durante il giorno, a Venezia, si poteva uscire, comprare libri, lavorare, visitare amici e i non ebrei entravano spesso nel Ghetto per ascoltare lezioni e sermoni rabbinici. Fu proprio in quell’epoca che nel Ghetto di Venezia vennero aperte numerose accademie talmudiche, che grazie al prestigio dei loro rabbini, ebbero una tale risonanza esterna che in breve tempo fecero di Venezia un centro di primaria importanza nella cultura ebraica europea. La coscienza di essere testimoni di una tradizione culturale e religiosa degna di essere perpetuata sembrava a molti ebrei offrire loro una protezione sufficiente.
Non mancarono chiaramente coloro che rinunciarono agli elementi distintivi dell’ebraismo ma guardando alla storia della presenza ebraica a Venezia, risulta evidente che una delle forze della comunità ebraica sia stata proprio quella di attingere dall’esterno, all’altro da sé, restando sempre se stessa, ma pronta a dare, di volta in volta risposte nuove. La capacità insomma di assimilare dal mondo circostante senza assimilarsi ad esso.
Venezia conta oggi poco meno di 500 ebrei che ancora conservano tratti caratteristici e interessanti che difficilmente si riscontrano in altre comunità anche grazie a una storia omogenea. Gli ebrei veneziani che da generazioni risiedono a Venezia sono rimasti in città con scarse migrazioni, e diversamente da altri posti, un ebreo di Venezia può definirsi da sempre veneziano. Si può affermare che gli ebrei veneziani hanno sviluppato un particolare sentimento di orgoglio “nazionale” di minoranza che attraverso una tenacissima resistenza ha conquistato un suo proprio diritto di appartenenza alla città, diritto irrinunciabile per chi vive in uno stesso luogo da tanti secoli. E molti ebrei veneziani ancora usano il dialetto giudeo veneziano. L’importanza di un indicatore come quello della conoscenza e della trasmissione di tale dialetto ci testimonia come l’identità ebraica si fonde con la “venezianità”. Serviva soprattutto come elemento segreto di difesa in un ambiente di diffidenza in quanto non era comprensibile per i non iniziati. Si può quindi vedere in esso la funzione psicologica e sociale che svolge in un gruppo di minoranza da cui traspare la necessità di fermare quel linguaggio particolarissimo che si affidava soltanto alla tradizione orale e che consegnava un patrimonio di saggezza, di cultura popolare che più di tre secoli di vita avevano prodotto. Ci sono ancora oggi a Venezia forme di particolare attaccamento che si tramandano di generazione in generazione.
La più evidente è il riconoscersi in uno spazio che rappresenta da sempre con i suoi “custodi” la memoria storica degli ebrei di Venezia. Uno spazio in cui convivono e operano ebrei di diversa estrazione e provenienza geografica e culturale. Nonostante le fisiologiche tensioni, questo scenario multiculturale si inserisce in quella secolare politica della civiltà veneziana di cui la comunità ebraica è parte integrante da almeno 500 anni e dove i “ponti”, non solo architettonici, ma metaforici, hanno sempre rappresentato punti di incontro dell’ebraismo nelle sue varie espressioni (Sefardita, Ashkenazita, Levantina, Italiana). Il Ghetto di Venezia è un luogo che ancora evoca il miracolo della sopravvivenza di una piccola minoranza che ha saputo allinearsi dalla parte della vita, che non ha abdicato ai suoi valori e non si è lasciata umiliare dalla segregazione.
Rav Roberto Della Rocca, direttore dipartimento Educazione e Cultura UCEI
Pagine Ebraiche marzo 2016
(6 marzo 2016)