…rappresentanza

Sto cercando di abituarmi all’idea che questo sia il mio ultimo intervento. E non per motivi di salute.
Sull’utilità dell’incontro con il Papa ho già scritto. Ho lasciato poi decantare un po’ l’argomento, non certo per seppellirlo. La visita del Papa alla sinagoga di Roma ha mandato messaggi chiari a tutto l’ebraismo italiano, e non solo sul rapporto che intercorre fra noi e la chiesa di Roma. Ma nessuno sembra averci fatto caso. Ciò che si è evidenziato è il prevalente ruolo rappresentativo dell’ebraismo romano a scapito della voce unitaria e legittima dell’ebraismo italiano, che, attraverso i suoi rappresentanti, ha votato e scelto un suo presidente nazionale.
Il protocollo diplomatico avrebbe voluto che il rappresentante della comunità di Roma desse il benvenuto all’ospite. E già qui sarebbe sorto un problema, perché in una sinagoga il compito di ospitare spetta al Rabbino capo, che tuttavia non è omologo del Papa, in quanto rabbino di una singola comunità e non dell’ebraismo italiano, né tanto meno di quello mondiale. La presidente della comunità avrebbe potuto, comunque, dare un secondo benvenuto ‘laico’, da parte della comunità romana. Ma l’incontro con un capo religioso avrebbe dovuto mantenere un carattere religioso. Si è assistito, invece, a un discorso che è presto sfociato in un’analisi politica sulla violenza in Israele, tenuto dalla presidente della comunità di Roma, senza ovviamente previa consultazione con gli altri presidenti. Ma – si dirà – era a casa sua! Il che è vero, solo che, priva di autorizzazione morale, stava parlando anche per altri, e non solo appartenenti alla sua comunità. E stava formalmente presentando la comunità erbaica italiana come ambasciata d’Israele. È possibile poi lamentarsi se nei siti internet neonazisti ci dichiarano ‘agenti del Mossad’, come è capitato anche al sottoscritto? Chi ingenera la confusione?
Allora? Sono un vigliacco? Ho paura a difendere Israele? Per niente. Ma se la difendo per conto mio decido io come farlo. Se invece la difende qualcuno a nome di tutti, allora pretendo che sia il presidente dell’Unione.
Lo sconcerto, dopo i fatti di Roma, ha avuto varie ragioni. Perché, per l’ebraismo italiano, ci sarebbero stati altri temi importanti e coinvolgenti da trattare, di carattere ‘nazionale’ e religioso; 2. perché non ci si sarebbe aspettati che in sinagoga, con il Papa, si volesse fare politica – riconoscendo così implicitamente al Papa stesso il diritto di fare politica (riconoscendo cioè, di fatto e a posteriori, il suo diritto a riconoscere lo stato di Palestina!!); 3. perché ci si sarebbe aspettati che la politica degli ebrei italiani la facesse il presidente dell’Unione, a ciò delegato dal suo ruolo istituzionale – sempre ammesso che fosse giusto e si volesse fare politica.
Quasi quasi, chi si è comportato meglio attenendosi al suo ruolo ‘religioso’ è stato il Papa che, mantenendo il suo severo e disinteressato aplomb di fronte ai sonori schiaffi che gli venivano somministrati in barba alle regole dell’ospitalità, si è limitato a chiedere la ripresa di un dialogo teologico con l’ebraismo. E per fortuna qualcuno ha avuto il coraggio di rispondergli che non vi è luogo a procedere, che noi stiamo bene così come siamo.
Il nocciolo della questione, tralasciando l’occasione perduta e malamente condotta, resta per le comunità italiane quel forte gusto di amaro in bocca. La nuova costituzione del consiglio dell’Unione ha cambiato duramente il rapporto di rappresentanza fra le nostre comunità, a scapito unico, difficile negarlo, delle comunità piccole e sparse. Vale il peso e la quantità; il resto non conta. Non siamo così una federazione di comunità, ma un insieme colonizzato dal peso della maggioranza numerica. La cosa sarebbe discutibile. Ma quando, a suo tempo, si è cercato di discuterla nessuno ha voluto capirla. Primi fra tutti i colonizzati. I colonizzatori giuravano invece che avrebbero difeso i diritti dei più piccoli: una promessa contro natura! A difendere i nostri interessi, a rappresentare la nostra politica sarà la comunità maggiore. Ma noi della definizione di ‘fratelli maggiori’ abbiamo imparato a sospettare. Qualcuno ama ancora autodeterminarsi, rappresentare le proprie idee con la propria voce, senza affidarsi a rappresentanze altrui.
Le piccole comunità (ma anche Milano), per ora, hanno rinunciato a esserci. I loro presidenti non si sono accorti di nulla. O, nel caso se ne siano accorti, hanno reputato più diplomatico fingere di non aver visto e, soprattutto, di non aver sentito. Speranza per un futuro di maggiore equilibrio ce n’è poca. Per ora, davanti a noi, il tunnel è bello buio. Chissà che non sia colpa degli occhiali da sole!
Con tutto l’affetto per gli amici. E con profondo rammarico, se questo sarà il mio ultimo intervento.

Dario Calimani, anglista

(8 marzo 2016)