Parole più nuove

Sara Valentina Di Palmama odo / parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane. / Ascolta. Piove / dalle nuvole sparse.
Taci. Ascolta. Odi? Ascolta. Ascolta, ascolta. Ascolta.

Ascolta Ermione, fattasi natura con gli occhi di polla d’acqua e denti di mandorla, perché ascoltando non sentirà più il brusio invadente delle spesso fasulle parole d’uomo, ma la voce della natura, un discorso nuovo che scende ineluttabile gocciolando sugli alberi, sulle vesti, sul rinnovarsi dell’amore.
Di continuo, ultimamente, inciampo nella dannunziana Ermione alias Eleonora Duse, venuta al mondo per caso sotto il mio segno e nella mia stessa città natale, nevrotica anticonformista che ammaliò tra le altre anche Laura Cantoni Orvieto cui scrisse per un breve periodo lettere piene di sentimento e di enfatiche frasi dalla grafia nervosa, coronate da punti esclamativi. Di Eleonora c’è un bellissimo, assorto ritratto, firmato da Vittorio Matteo Corcos, suo coetaneo artista toscano amico di Giosuè Carducci e di Gabriele D’Annunzio. Era Corcos un nascente ritrattista ebreo, convertitosi al cattolicesimo e quindi unitosi in matrimonio con Emma Ciabatti, la quale lo introdusse al circolo de Il Marzocco dove probabilmente entrò in contatto proprio con Laura Cantoni, moglie del letterato Angiolo Orvieto fondatore del celebre periodico culturale su cui la Orvieto iniziò a scrivere, come pure Corcos stesso.
Chissà se Laura ed Eleonora ebbero modo di vedere e di commentare Sogni, dipinto per il quale il quasi quarantenne pittore venne giudicato sconveniente dalla società benpensante e moralista dell’epoca a causa della posa della modella (una signorina elegantemente vestita fino al mento, polsi e caviglie, sulla quale i commenti che si sprecarono allora farebbero oggi sorridere). Di sicuro, Laura ed Eleonora ne condividevano l’attenzione al vero, l’amore per l’ascolto profondo dell’essenza delle cose, la ricerca del significato oltre gli orpelli sociali piccolo borghesi.
Questo dice ad Eleonora il poeta: ascolta. Si incontrarono davvero, dopo essersi sfiorati più volte, a Venezia, lui poco più che trentenne, lei di sei anni più anziana, in un amore non lineare al pari della loro vita, fatto di rotture e ripensamenti, ardenti passioni e rivalità lavorative (solo due anni dopo l’inizio della loro relazione, lui scelse la sua nemica di sempre, Sarah Bernhardt, per la prima francese de La città morta, che Eleonora avrebbe dovuto portare sulla scena nello stesso periodo in Italia, ma per svariati contrattempi il progetto andò a buon fine solo alcuni anni più in là). Un amore che probabilmente non finì mai, neppure con la morte di lei.
La stessa passionalità che di Eleonora aveva colpito Laura Orvieto fu il motore dell’attività lavorativa dell’attrice, conducendola ad interpretazioni forse sì enfatiche ma sicuramente sentite ed anticonformiste per la dissacrazione dei valori dell’epoca in fatto di matrimonio, amore, ruolo femminile nella società. Già allora, ad Eleonora, il mondo appariva un ipocrita balletto di personaggi finti mossi dal denaro e dall’inganno reciproco, incapaci di verità e di coerenza con se stessi.
Mi piace pensare che proprio per questo Eleonora fu la prima a portare in Italia, il 9 febbraio 1891 al Filodrammatico di Milano, Casa di bambola di Henrik Ibsen, nella traduzione di Luigi Capuana. Di sicuro la Duse ne apprezzava la critica al perbenismo del matrimonio vittoriano, un matrimonio in cui la protagonista del dramma, Nora, appare inizialmente inconsapevole e quindi felice gingillo nelle mani del marito, sino a quando non avrà realizzato di aver vissuto come un animaletto domestico (un’allodola) in una casa di bambola e deciderà di lasciarlo – cosa del tutto inconcepibile nella cornice dei doveri femminili e coniugali dell’epoca.
Di ritorno dalla prima nazionale pistoiese di Casa di bambola per la regia di Roberto Valerio, in cui la scenografia fa della casa di Nora la prua di una nave battuta dal vento che insidia la tranquilla vita borghese di questa coppia benestante con tre bambini, colgo in questa Nora (Valentina Sperlì) la modernità di un burattino manovrato dal marito nel farle ballare la tarantella e la difficoltà di emanciparsi, di avere il coraggio di togliersi la parrucca che l’ha accompagnata in scena durante tutto lo spettacolo dichiarando di dover lasciare marito e figli per cercare se stessa. Ma poi Nora si ferma, esita, torna sui suoi passi, si siede sul divano ed indossa nuovamente la parrucca, forse rientra nei panni che il padre prima ed il marito poi le hanno cucito addosso. Qual’è il prezzo da pagare per la propria autonomia? Che cosa dirà il padre ai bambini, cosa gli amici ed i benpensanti tutti? Riuscirà Nora a mantenersi, a riorganizzare una vita che non sia in funzione d’altri? Forse tutto ciò ha un costo troppo alto. Chissà quale decisione prenderà Nora.
I pensieri vanno ad una ragazza insicura, vent’anni fa, sul palcoscenico di un teatro di provincia, intenta a recitare la disperazione di una Nora che vorrebbe essere diversa da quella donna plasmata da volontà altrui ma non ne ha forse la forza; entrambe intuiscono cosa non vada e cosa debba essere cambiato, ma…
E intanto fuori piove.

Sara Valentina Di Palma

(10 marzo 2016)