Time out
Roma e gli altri
Sarebbe un peccato se Dario Calimani decidesse di lasciare queste pagine. Lo leggo sempre con grande attenzione nonostante spesso non sia d’accordo con lui. Nel suo ultimo intervento presenta delle riflessioni interessanti, alcune anche condivisibili, altre di meno su cui però vale la pena soffermarsi un po’. È un dato espresso da più parti che la visita del papa al Tempio abbia evidenziato una maggiore capacità dell’ebraismo romano, rispetto all’Ucei, di emergere come rappresentante dell’ebraismo italiano. Da una parte, secondo alcuni, nella leadership romana esiste una maggiore empatia con i sentimenti ebraici tanto da far sentire rappresentati anche gli ebrei non romani maggiormente con la Cer piuttosto che con l’Ucei. Dall’altra questo cortocircuito è anche dovuto a un sistema elettorale e di gestione fatto di accordi politici tra dirigenze in sede Ucei che non rispettano gli umori di larga parte dell’ebraismo italiano. Certo, sarebbe bastato aver ricevuto l’invito per la visita del papa e alcune imprecisioni sarebbero state evitate. A formulare l’invito sono stati il rabbino Capo e il presidente Cer, in quanto la visita del papa era alla Comunità ebraica che lo aveva invitato. La scelta di far intervenire il presidente Ucei è stata una scelta della dirigenza ebraica romana e del rabbino, che ripeteva la formula utilizzata per la visita di Benedetto XVI da Riccardo Pacifici, allora presidente della Comunità ebraica di Roma, innovando rispetto alla precedente con Giovanni Paolo II dove il presidente Ucei non parlò.
In ogni caso appare assurda la pretesa che, per esprimere la propria posizione la Comunità di Roma debba chiedere il permesso alle altre Comunità o far leggere preventivamente il discorso (cortesia peraltro rivolta a Gattegna e viceversa). Non so se l’abbia fatto il Presidente Ucei, che alle comunità deve rendere conto, ma è in ogni modo fuori da ogni logica. Di certo questo tentativo goffo e maldestro di controllare l’ebraismo romano da parte di alcune figure è una delle cause di incomprensione e diffidenza verso una certa dirigenza ebraica.
Certe posizioni sembrano però avere ragioni più profonde. Da parte mia è difficile comprendere come mai da certe parole si percepisca un risentimento così acceso e rancoroso. Come è difficile comprendere la ragione per cui gli ebrei romani dovrebbero rinunciare ad essere rappresentati in un sistema, quello dell’Ucei, che di fatto non li rappresenta. Il presidente Ucei è infatti il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, non degli ebrei italiani, eletto con un sistema (votato all’epoca incautamente, seppur in buona fede, anche dai “colonizzatori”) per cui il voto di un ebreo di Biella o Venezia influisce di più rispetto a un voto di Roma in termini di rappresentanza numerica, che non è proporzionale. Quel sistema fa sì che minoranze numeriche dell’ebraismo italiano, anche 10 volte minori rispetto a Roma o a Milano, possano escludere dalla gestione del governo Ucei le due liste che alle elezioni rappresentano il 70% degli ebrei romani. Insomma un principio che fino ad oggi ha retto solo perché basato su rappresentanze virtuali, che hanno permesso di fare di Roma sempre un nemico, anziché un partner le cui considerazioni e visioni sono fondamentali per l’ebraismo italiano. La domanda ora è: fin quando potrà durare questo stato di fatto? La mia speranza è che alle prossime elezioni si arrivi con il giusto spirito o che altrimenti si rimetta mano ad un sistema che permette oggi a certi dirigenze comunitarie di anteporre l’interesse particolare di fronte a quello per la collettività ebraica. Posso assicurare che gli ebrei romani non vivono questo risentimento, anzi credono profondamente nella necessità di un ebraismo italiano unito e forte, ma certi interventi e atteggiamenti non aiutano a raggiungere l’obiettivo. Per questo spero che Calimani rimanga, perché di discussioni franche e sincere se ne sente la necessità, purché ci sia la voglia di ascoltare l’ebrasimo romano che fino ad oggi in troppi hanno provato ad escludere. Di questo abbiamo bisogno, altrimenti con interventi pieni di rancore e astio l’ebraismo italiano non andrà troppo lontano.
Daniel Funaro
(10 marzo 2016)