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Jihad, minaccia all’Europa

torino molinari Attesa presentazione a Torino, presso la Fondazione Camis de Fonseca, dell’ultimo libro di Maurizio Molinari Jihad. Guerra all’Occidente (Rizzoli, 2015).
Titolo incisivo, come chiara e lineare si rivela essere la sua analisi. Ciò che emerge in prima battuta è l’assoluta attualità delle tematiche affrontate. Gianni Vernetti infatti definisce il volume un “instant book”, proprio perché descrive ciò che viviamo in presa diretta. Questo aspetto si fa ancora più pregnante quando a prendere la parola è Molinari che apre l’incontro facendo riferimento all’attentato di matrice jihadista avvenuto meno di un’ora prima della presentazione contro turisti stranieri in Costa d’Avorio. I jihadisti, sostiene Molinari, “hanno trovato in Africa un nuovo terreno di competizione e di scontro”. Molte le domande poste all’autore, il quale risponde mantenendo una singolare lucidità analitica. Qual è il ruolo dell’Occidente in questo conflitto? Quanto la sua assenza condiziona l’espansione della Guerra Santa? “L’assenza dell’Occidente è uno dei fattori scatenanti della Jihad ed è da ricercarsi in termini di deterrenza”, spiega Molinari. La deterrenza è un concetto che si apprende per lo più studiando le guerre tra tribù nel deserto, dove lo scontro avviene per il controllo di risorse quali un pozzo, una strada, un porto, tutte infrastrutture che consentono la vita nel deserto. Ciò che cambia, rispetto alla concezione occidentale di conflitto, è la logica di questi scontri. Non si tratta, continua Molinari, “del dualismo vinto-vincitore, ma dell’io mi impossesso di qualcosa e tu che abbandoni il campo di battaglia”. Questo vuol dire che il nemico non è sconfitto e quindi può tornare: nel deserto i conflitti non hanno mai termine. Ciò che sancisce la vittoria sul lungo periodo è proprio la deterrenza nei confronti dell’avversario, che si traduce nella convinzione o percezione che l’avversario sia più forte. “La percezione del potere è più forte del potere stesso”. Ed è proprio il cambiamento di percezioni a far tracollare il ruolo dell’Occidente, la cui anima è rappresentata dagli Stati Uniti. La perdita di deterrenza di questi ultimi ha così alterato equilibri già precari. Molinari individua in particolare tre momenti della presidenza Obama che hanno sancito il crollo della percezione della potenza Usa: ritirata dall’Iraq di tutti i soldati americani (fine 2011); mancata reazione all’utilizzo di armi chimiche da parte del governo di Assad (2013); cambiamenti di posizione del governo americano rispetto all’Egitto, in particolare rispetto all’operato prima di Mubarak e poi di Morsi. Queste continue altalenanze e progressive assenze fanno sì che gli Stati Uniti vengano percepiti come deboli. La palla passa a un’altra potenza: la Russia di Putin, che difende i propri interessi con aggressività, adottando così le regole del deserto. La Russia ha riempito e continua a riempire il vuoto lasciato dagli Usa su tutti fronti: se da una parte è alleata dell’Iran nel sostenere Assad in Siria, dall’altra ha stretto accordi con lo stesso Israele, non tanto per la condivisone di ideali o di posizioni geopolitiche, quanto per l’elemento ‘russofono’ presente all’interno dello Stato: un terzo della popolazione israeliana ha infatti come lingua madre il russo.
Dopo una riflessione sugli ‘errori’ dell’Occidente, si cerca di riflettere sulle possibili strategie che Stati Uniti ed Europa dovrebbero mettere in campo: poiché l’estensione del conflitto è tale non sono applicabili interventi militari ‘classici’. Bisogna puntare, insiste Molinari, sul ricreare la capacità di deterrenza. Ruolo che potrebbe spettare al nuovo presidente americano, anche se, tanto in campo repubblicano quanto in campo democratico, manca ad oggi una riflessione profonda sul tema della sicurezza. “Ciò che deve cambiare è la percezione che le forze jihadiste hanno del mondo occidentale”. Poi è il turno dell’Europa, in difficoltà nell’esercizio di un qualsiasi ruolo incisivo per tre ragioni principali: mancanza di una strategia verso il nemico esterno, incapacità di gestione sul lungo periodo del fenomeno migrazione, mancanza di un progetto di integrazione comune dei musulmani all’interno dei diversi paesi. Un’incompiuta integrazione facilita la recluta da parte dei gruppi jihadisti, conclude Molinari.
“Il grande merito di questo libro è di informarci sulla complessità del fenomeno Jihad”, sostiene il semiologo Ugo Volli. Al tavolo dei relatori anche Dario Peirone, presidente di Italia Israele (che ha organizzato l’evento).
Il problema che emerge a più riprese è l’incapacità del mondo occidentale di decifrare con le giuste lenti lo scenario in cui è coinvolto: basti pensare a come è stato interpretato diversamente l’accordo di Vienna: l’occhio occidentale lo ha visto positivamente. La miopia di Usa ed Europa ha trascurato l’impatto che l’accordo ha generato nel mondo sunnita: ha legittimato l’Iran come potenza suprema, rafforzando così il conflitto diretto tra sunniti e sciiti. Non si tratta solo di relativismo o di diversità di pensiero, ma di un drammatico distacco dalla realtà. Ciò che resta da capire è come far sì che l’Occidente torni a guardare il presente con lenti giuste, o quantomeno che si decida ad aprire gli occhi.

Alice Fubini

(14 marzo 2016)