Periscopio – Lech Lechà
È certamente motivo di grande piacere e soddisfazione l’apertura, lunedì scorso, di quello che è ormai certamente diventato uno dei più significativi eventi culturali del Paese, vale a dire la settimana di arte, cultura e letteratura ebraica “Lech lechà”, che permette a tante persone, provenienti da tutta Italia, di riunirsi, nell’incantevole cornice di Trani, per discutere e riflettere insieme su tematiche di alto interesse e grande rilevanza, che vanno anche al di là dello specifico ambito ebraico, alternando le ore di impegno e concentrazione con momenti di svago e convivialità. Del ricco programma di appuntamenti previsti è già stata data notizia, e c’è da complimentarsi del lavoro svolto con tutti gli organizzatori, che ringrazio di avermi, anche quest’anno, invitato a partecipare, in qualità di relatore, nella mattinata di domani, nella Biblioteca Comunale G. Bovio, a una discussione sul tema “‘Ripetetele ai vostri figli’. Primo Levi e le parole dimenticate”, accanto a rav Benedetto Carucci Viterbi, moderatrice Nunzia Saccotelli.
Il suggestivo titolo scelto per l’incontro rimanda al cuore della questione centrale della straordinaria testimonianza di Primo Levi, ossia l’ardua missione affidata alla parola umana di fronte all’annichilimento assoluto, che, nel cancellare ogni traccia di umanità, e nel ridurre l’uomo a una condizione di ferina abiezione, non può non cominciare col soffocare la parola stessa, negando così la prima capacità dell’uomo di esprimere, interloquendo con i propri simili, la propria umanità. Nel Lager Primo Levi assisté alla morte della parola, che poi descrisse mirabilmente nelle sue memorie, venendo posto al cospetto di un martirio consumato nel più assoluto silenzio, innanzi al quale i “salvati” non potranno mai rendere testimonianza del destino dei “sommersi” (perché, come egli ebbe a scrivere, i veri testimoni non sono tornati, o sono tornati muti). Scampato all’inferno concentrazionario, Levi volle riappropriarsi della capacità redentrice della parola, chiamata a dare voce alle vittime, a decifrare il senso di quanto era accaduto, e votò l’intera sua esistenza alla sacra missione del testimone. Ma un’onda nera, l’11 aprile del 1987, lo sommerse. Nessuno potrà mai sondare il significato dell’ultimo gesto di Primo Levi, capire se e in che misura esso sia da collegare agli incubi del passato, o a una malattia del presente, o a un naufragio della fragile navicella della parola, travolta come l’imbarcazione dell’Ulisse di Dante (a cui Levi dedicò una memorabile pagina).
A Jorge Semprùn, secondo cui Primo Levi riuscì a trovare la forza di vivere attraverso la scrittura, Elie Wiesel obietta che egli, al contrario, si uccise proprio in quanto scrittore. Nessuno potrà mai sapere la verità. Se la tragica scelta di porre termine alla propria vita appare, come è stato detto, in netta contraddizione rispetto alla sua lezione riguardo al dovere della testimonianza e al dominio della ragione, questo gesto – come ebbi a scrivere, anni fa, in un libretto dedicato proprio alla morte di Primo Levi – fa anche parte integrante della testimonianza, del testamento di Levi, rappresentandone una sorte di eterno sigillo, un grido silenzioso chiamato a chiudere il lungo racconto di Auschwitz. Quel solo attimo di ingresso nel mondo nel silenzio, di resa alle tenebre, vale altrettanto – non di più, ma non di meno – dei precedenti quarantadue anni di lucide, forti, luminose parole.
Credo che il modo migliore di commemorare Primo Levi, a quasi trent’anni di distanza da quel giorno, sia quello di riaffermare il valore e la forza della parola, come strumento di verità, segno di umanità e possibilità di riscatto e di giustizia; ma anche di interrogarsi sul limite, sulla fragilità della parola stessa – sempre destinata a diventare “parola dimenticata” -, sulla ineluttabilità della sua eterna lotta contro l’oblio, l’indifferenza, il silenzio. E sul valore e il rischio della testimonianza, tanto strettamente collegati al rischio e al valore di essere uomini.
Francesco Lucrezi, storico
(16 marzo 2016)