Ticketless – Via Artom
Il romanzo di Alessandro Musto (Via Artom, RAI Eri) merita di essere salutato con gioia da chi abbia a cuore l’eredità dei Diari di Emanuele Artom. Che un giovane esordiente si sia ispirato a quel libro è di per sé lodevole, ma la trama del libro pone un ulteriore problema, che va oltre la storia e la letteratura e ci riguarda da vicino. Musto racconta di aver scoperto un giorno, dal colore delle vetrate, che la casa dov’è andato ad abitare in via Sacchi, proveniente da via Artom, è la stessa abitata da Emilio Artom, dai suoi due figli, Ennio ed Emanuele. La casa è proprio quella, la si riconosce dalle vetrate colorate. Musto dialoga con il passato, giocando sulla nozione dell’abitare. Insegna Perec che la composizione, il puzzle delle stanze in cui si vive possono regalarci istruzioni per l’uso, utili nella vita. Non si abita mai due volte nello stesso modo e del resto i nomi delle strade non vengono scelti a caso. Via Artom era stata situata lì non per caso, a due passi dal Sangone, sulle cui sponde il corpo senza vita di Emanuele fu gettato dai tedeschi (e non sarà mai ritrovato: si ricordino le pagine commoventi di Bianca Guidetti Serra, sul disperato tentativo degli amici di dargli sepoltura all’indomani della Liberazione).
Il libro di Musto ha come sfondo via Artom, ma anche S. Salvario: i due Bronx della memoria ebraica torinese. Due aree urbane di sofferenza, dove le doglie della storia si percepiscono a occhio nudo; dove la riparazione del mondo sembra a portata di mano; dove l’Alto e il Basso, il piccolo e il grande, l’umile e il sacro, insegna Giobbe, s’intrecciano davanti ai banchi del mercato di via Madama Cristina; dove per le strade, nelle sembianze di un mendicante o di una prostituta, potrebbe nascondersi il viso di uno dei sedici giusti su cui si regge il mondo. La domanda che sorge è allora la seguente. Perché nessuno s’è accorto finora di una cosa così strepitosa? Abbiamo dovuto aspettare Musto per metterla a fuoco. Come mai, nel secondo Novecento, dentro il pur vivacissimo, ma litigiosissimo, mondo ebraico locale, non si è levata la voce di un Scholem, dilettante fin che si vuole, ma coraggioso e capace di spiegarci perché sulle rive del Sangone, su via Artom e intorno alla piazzetta Primo Levi abbia soffiato e così forte soffi ancora il vento delle grandi correnti della mistica ebraica?
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Il rinnovato interesse intorno alla figura di Artom è confermato dalla pubblicazione del catalogo dei suoi libri donati nel 1946 alla Biblioteca “Arturo Graf” di Torino, come apprendiamo dall’ottimo saggio di Elena Prandi, E. Artom e i suoi libri, in Culture del testo e del documento, n. 47, maggio-agosto 2015, pp. 105-134.
Alberto Cavaglion
(16 marzo 2016)