Una bambina in fuga

Sara Valentina Di PalmaLidia Gallico è poco più che Una bambina in fuga, nei diari appena editi da Gilgamesh Edizioni per la curatela di Maria Bacchi, la quale continua il suo lavoro di duplice scavo sulla storia di infanzia e sulla vicenda di ragazzi mantovani perseguitati durante la Shoah, come già Luisa Levi di cui aveva scritto in Cercando Luisa.
Lidia è una bambina quando, nel 1938, inizia la scuola elementare. Lidia, a sei anni, sa di essere ebrea, ma per lei questo sino ad allora non era stato molto più che non andare in chiesa la domenica e non avere immagini sacre per casa. Per lei l’esperienza scolastica inizia già con la separazione, inserita in una classe ‘speciale’ per bambini ‘di razza ebraica’ nella scuola elementare Castiglioni di Via Vescovado a Mantova. Oggi l’istituto è intitolato proprio a Luisa Levi, amica di Lidia di quattro anni più grande, che sovente accompagna Lidia e l’amica Emma Parigi lungo la strada da casa a scuola, ed il cui destino sarà tristemente diverso: Emma e Lidia salve, Luisa deportata ad Auschwitz e morta di tifo e di stenti a Bergen Belsen dove era arrivata, ormai esausta, da una delle cosiddette marce della morte di evacuazione di Birkenau. Luisa accompagna a scuola le due bambine più piccole, come ricorda Lidia nel suo diario, dopo che diventano improvvisamente diverse dagli altri bambini i quali, “ci dileggiavano con motteggi stupidi e crudeli, come solo i bambini sanno fare. Ce n’erano alcuni che, annodando le cocche di un fazzoletto, facevano ‘le orecchie del maiale’ e poi ce lo agitavano sotto il naso. Ce n’erano altri che ci lanciavano sassi e gridavano ‘Dai all’ebreo, dai all’ebreo!'”. Ma poi la vita scolastica procede più o meno normale, una volta giunte al sicuro in classe…a parte la sconcertante promiscuità tra maschi e femmine, del tutto sconosciuta agli usi dell’epoca. E a parte l’umiliazione della ricreazione in cui i ‘fanciulli di razza ebraica’, maschi e femmine insieme, non giocano nel cortile con gli altri bambini (di nuovo, i maschi separati dalle femmine), ma sono raggruppati in un angolo del cortile maschile durante la ricreazione dei ragazzi. E a parte pensandoci anche quando, negli ultimi due anni di scuola, i ragazzini ebrei trascorrono l’intervallo dalle lezioni in un’area separata dell’ultimo piano della scuola, dal quale possono solo osservare i bambini ‘normali’ attraverso una rete.
Tutto questo non deve essere stato poi così di poco conto, se memoria pungente ne resta in uno dei diari di Lidia, quello scritto dal gennaio del 1993. Tanti sono gli aspetti che emergono a distanza di anni, e che neppure la stratificazione di esperienze e di ricordi ha fatto sbiadire.
Primo tra tutti, colpisce il dolore che Lidia ricorda a Maria Bacchi, in un’intervista del 1997, per il sovvertimento improvviso, inaspettato e devastante, dei ruoli genitore-figlio. Come già sappiamo da altre testimonianze di persecuzione infantile, prima ancora che con l’esclusione dalla scuola pubblica il momento di cesura è la violazione della sicurezza familiare, che passa attraverso lo svelamento della debolezza genitoriale di fronte alla persecuzione: vedere i genitori umiliati da altri adulti oppure in lacrime ed incapaci di controllare la propria emotività, sconvolge per sempre l’idea che i piccoli hanno della sicurezza familiare, in un mondo rovesciato in cui gli adulti si mostrano vulnerabili come i bambini. Lo ricordano tra gli altri Carola Cohn che deve prendere il posto della madre impazzita per la paura, Susetta Ascarelli (“Vidi mia madre piangere […] quello fu un grosso trauma per me, perché vedevo una sicurezza che si sgretolava”), Donatella Levi (“Dovevo sorridere per la felicità della mia mamma”), Edith Rechter Levy la cui madre prima forte ed energica diventa all’improvviso sottomessa ed implorante, Liliana Treves (“Papà sta piangendo […]. Per un momento mi sembra di essere più grande di papà”), per citarne solo alcuni. Lo racconta anche Lidia come “un momento molto brutto: mio padre […] mi ha preso sulle sue ginocchia: io ero grande, e ho visto che piangeva. Veder piangere mio padre, un uomo…per me è stata una cosa veramente terribile”.
E una volta entrata in Svizzera con i genitori, insieme al sollievo per la salvezza (pur non potendo ancora conoscere quanto fosse stata fortunata insieme ad altri circa 28.000 richiedenti asilo rispetto ai tanti ebrei, quasi 25.000 secondo le stime più recenti, che la Confederazione Elvetica respinge, gettandoli nelle mani dei persecutori) il dolore per la rigidità burocratica che allontana tutti i bambini sopra i sei anni dai genitori, l’umiliante esperienza del rifiuto ad accoglierla da parte di una signora di Bellinzona la quale apparentemente la respinge perché troppo grande, molto più probabilmente perché ebrea, l’accoglienza in un convento di suore.
Qui Lidia scopre la catarsi della scrittura ed inizia il primo diario, quello teoricamente più personale ed intimo (diversamente dalle lettere indirizzate ai genitori e pubblicate nel testo, più compassate anche per la consapevolezza del vaglio da parte delle suore prima della spedizione). Nel diario, che tratta i problemi propri di ogni ragazzina di quell’età tra scuola, compagne ed amiche, lontananza dai genitori e dalla amata patria, a sprazzi emerge anche la consapevolezza del proprio ebraismo – come il 21 gennaio del 1945, domenica, quando Lidia scrive di aver pianto la sera prima pensando “al mio avvenire, a tutti i progetti che facevo con la mia cara mamma, al Bath Mitzvà”.
Non ne scriverà poi, quando il momento della sognata cerimonia arriverà, ma questo non deve sorprendere più di tanto: la scrittura si fa più rada con l’incedere frenetico degli eventi, la liberazione, il rientro in Italia, il desiderato e temuto ritorno a Mantova (la sua camera, scrive nel luglio del 1945, non le piace come quella della casa che era stata costretta a lasciare fuggendo dall’Italia, perché “meno intima e segreta”, e prenderne atto significa realizzare con dolore che tutto è cambiato, lei stessa non è più la bambina del ‘prima’.
Ne è consapevole Lidia adulta, che dopo il ritorno a casa dirada la stesura del diario sino ad interromperlo per quasi due anni e poi definitivamente: nel diario del 1993 Lidia conferma il racconto disilluso di molti altri bambini ed adolescenti sopravvissuti: “Alla fine della guerra era sembrato a tutti noi di toccare il cielo con un dito, eravamo felici […] Invece…il colpo più duro lo ricevemmo proprio qui, a casa, quando si seppe tutto quello che era accaduto […]. ancora oggi, dopo tanti anni, mi sorprendo a pensare o a dire: ‘Prima della guerra’ o ‘Dopo la guerra’, dividendo inconsciamente la mia vita in due parti e ponendo così una cesura, una distinzione netta fra il ‘prima’, un tempo felice, arcaico, vissuto come un sogno, anche perché era il tempo dell’infanzia, e il ‘dopo’, un tempo adulto, segnato da qualche cosa che non potrà mai essere cancellato […]”.
Spesso la liberazione segna la conclusione del racconto dei sopravvissuti, perché quello che accade dopo “è un’altra storia”, come mi ha raccontato diversi anni fa in un’intervista Graziella Falco, che poi fece Aliah. Il mondo del dopo, per esseri dall’identità interrotta alle soglie dell’età adulta, è tutto da inventare più che da ricostruire, ed inizia un percorso che appare spesso più simile alla sopravvivenza che alla vita piena: qualcuno, come Liliana Treves, si sente persino dire da una vicina di casa con cui giocava che “se vi hanno ammazzato in così tanti vuol dire che qualcosa di male avete combinato, no…?”, altri come Francine Christophe realizzano che neppure le vecchie amiche di ‘prima’ possono riallacciare lo stesso legame, perché “non riesco più a seguirvi, i nostri pensieri non si accordano più […] non sono più del vostro mondo, sono di un mondo a parte”. Ancora, Alberto Sed realizza che neppure lo sport che tanto amava riesce ad interessarlo; Davide Schiffer si chiude nel silenzio senza riuscire a comunicare e a condividere il dolore neppure con i propri cari; Liliana Segre lo esprime con ancora maggiore chiarezza: “Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi ad un mondo che voleva dimenticare”.
La memorialistica prodotta da Lidia Gallico sembra confermare dunque in più punti quanto la storiografia sull’infanzia nella Shoah ha mostrato negli ultimi anni, ma l’aspetto più interessante nel lavoro di raccolta ed organizzazione dei materiali compiuto da Maria Bacchi è piuttosto un altro: Lidia è uno dei pochi casi noti di stratificazioni di fonti memoriali, non solo con il “diarietto comune” iniziato in Svizzera nel 1945 alla soglia dei tredici anni, il diario scritto nel 1993, le lettere ai familiari, le interviste di fine anni Novanta, che permettono di individuare la differenza tra fonti coeve e fonti successive all’evento, ma anche per le motivazioni della scrittura (una forma di resistenza e di passatempo prima, una chiara volontà di testimoniare, dopo) ed il sovrapporsi di piani interpretativi.
Lidia, al pari di Anne Frank o di Ana Novac, era ben consapevole già da ragazzina del valore dello scritto e della sua poliedricità, tanto è vero che, come Anne aveva scritto un diario privato ed uno destinato alla pubblicazione, nonché diversi racconti anch’essi pensati per il grande pubblico, e come Ana aveva scritto e ritrascritto stralci di diario da un lager all’altro integrandoli poi con una riscrittura adulta, così Lidia in Svizzera compie una duplice operazione: scrive il diario più intimo (sebbene anche in questo non si lasci andare a rivelazioni troppo private, conscia della possibilità che il diario finisca in mani estranee), ne riscrive una versione leggermente diversa ad uso di un’amica di collegio che glielo aveva commissionato, e dichiara che scriverà almeno un terzo diario per i genitori cui aveva promesso di scrivere e spedire periodicamente i propri pensieri, oltre alle lettere. Questo scrivere per l’altro è uno degli aspetti più peculiari delle scritture bambine di cui Egle Becchi ci ricorda la centralità nel fare storia dell’infanzia.
Delle note personali emerse dalla testimonianza di Lidia, colpisce infine in particolare un episodio non menzionato nel diario coevo, ma su cui Lidia torna a distanza di anni (forse non a caso nel periodo delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia): nell’istituto svizzero di suore che la ospitava erano giunte anche altre profughe, tra cui tre bambine ebree jugoslave, due sorelle ed una terza bambina arrivata in seguito. Lidia ricorda come fosse stata a lungo stupita della lontananza tra le tre ragazzine, che evitavano accuratamente di parlarsi e persino di incrociare lo sguardo, le sorelle da un lato di una barricata invisibile che le separava dalla terza bambina, sino a quando una di loro le parlò della divisione e dell’odio tra gruppi etnici jugoslavi. L’odio sembra insomma a Lidia arrivare anche a colpire i fratelli, “in un collegio femminile svizzero, dove si educavano delle fanciulle, dove si faceva del bene a delle bambine perseguitate […]”.

Sara Valentina Di Palma

(17 marzo 2016)