Hilary Putnam, un gigante della filosofia moderna
Hilary Putnam, un filosofo di Harvard la cui influenza spaziava attraverso molti settori del pensiero, incluse logico-matematica, filosofia della mente e del linguaggio, epistemologia e metafisica, è scomparso il 13 marzo nella sua abitazione di Arlington (Massachusetts). Aveva 89 anni.
A causare la morte è stato un mesotelioma in metastasi, ha spiegato la nuora Rebecca Steinitz.
Nel mondo dei filosofi contemporanei, il professor Putnam era conosciuto per l’ampiezza del suo pensiero, la vividezza delle sue tesi provocatorie, e l’inclinazione al mettersi in discussione e volontà di cambiare idea.
Nel campo dell’indagine caratterizzata da concetti elusivi, “ismi” da capogiro, e sottili tassonomie, i filosofi combattono costantemente per resistere alle semplificazioni. Infinita, o almeno enorme, è la complessità della natura delle cose, sosteneva il professor Putnam, scrivendo che “ogni filosofia che può essere chiusa in una scatoletta, vale una scatoletta”.
Ha dedicato la sua carriera all’espansione delle idee, le proprie e quelle degli altri, come se stesse esplorando un universo intellettuale sconfinato quanto quello fisico.
Ha lasciato un precoce segno nella logico-matematica. Con Julia Robinson, Martin Davis, e poi Yuri Matiyasevich, il professor Putnam ha elaborato una prova cruciale riguardo alla possibilità di un algoritmo che potesse risolvere alcune equazioni polinomiali. Che questo algoritmo esistesse o meno (venne fuori che non esiste) rappresentava una delle domande conosciute come “Il decimo problema di Hilbert”, una lista di sfide ai matematici del ventesimo secolo presentate dal tedesco David Hilbert al Congresso internazionale dei matematici svoltosi a Parigi nel 1900.
Nei primi anni, il professor Putnam aveva studiato con Hans Reichenbach, uno dei leader del positivismo logico, la scuola di pensiero oggi in discredito che sostiene che l’unica base della conoscenza sia ciò che può essere scientificamente verificato.
Il professor Putnam però vi si oppose, offrendo ad Harvard un corso sulla “conoscenza non scientifica”, includendovi lo studio della saggezza proveniente da estetica, etica e religione.
Nella teoria del linguaggio, il professor Putnam è conosciuto per l’affermazione che il significato non è “nella testa”: ciò che chiamiamo il significato di una parola è influenzato da fattori esterni – il contesto in cui si incontra il concetto.
Lui descrisse ciò che venne poi chiamata una divisione linguistica del lavoro, in base alla quale gli esperti di un determinato settore definiscono determinati concetti mentre altri possono riferirsi ai concetti e comprenderli, ma non definirli.
“Lui sosterrebbe che la nostra comprensione di qualcosa dipende da una comunità”, ha spiegato in un’intervista Warren Goldfarb, amico del professor Putnam già a capo del Dipartimento di Filosofia di Harvard. “Ci sono volte in cui si può dire che tu usi e comprendi un termine anche quando non ne conosci i tratti caratteristici. Io capisco la parola “larice” o “olmo”; non saprei distinguere gli alberi l’uno dall’altro, ma nessuno potrebbe dirmi che non li ho compresi”.
In un lavoro del 1975 intitolato “Il significato del significato”, il professor Putnam ha ulteriormente illustrato la sua tesi con un famoso esperimento denominato Terra Gemella. Ha immaginato un pianeta accanto al nostro, che ne rappresentasse un facsimile quasi in ogni aspetto, compresa una replica di ciascuna persona. L’unica differenza di Terra Gemella era rappresentata dalla sua acqua. Anche se aveva l’aspetto di H2O, il sapore di H2O, riempie laghi, fiumi e oceani e svolge le stesse funzioni di H2O, l’Acqua Gemella ha una differente composizione chimica, abbreviata a XYZ.
Di conseguenza, se un terrestre di nome diciamo Oscar viaggiasse su Terra Gemella e visitasse il suo doppione, Gemello Oscar, quando si riferissero all’acqua, starebbero parlando di due cose diverse, anche se esse apparirebbero la stessa. Poiché Oscar e Gemello Oscar sono identici sotto tutti i punti di vista, compreso in ciò che pensano in ogni dato momento, il significato non può semplicemente essere in funzione di ciò che viene formulato nella testa di qualcuno.
Un altro notevole esperimento di pensiero escogitato dal professor Putnam, conosciuto come “un cervello in una vasca” è stato nel campo della epistemologia. L’esperimento aveva l’obiettivo di confutare una tesi fondamentale del realismo metafisico – che oggetti e relazioni esistono nel mondo indipendentemente da come li percepiamo: in altre parole, che il mondo che vediamo e sentiamo non è quello che è veramente, e di conseguenza i nostri cervelli sono macchine di percezione slegate dalla realtà.
Se questo fosse vero, spiegava il professor Putnam, allora un cervello umano non sarebbe differente da un cervello in una vasca messo lì da uno scienziato pazzo. I cervelli umani tuttavia utilizzano parole basate sulle cose cui si riferiscono, cosa che richiede un certo contatto con queste cose. Quindi il cervello nella vasca, chiamiamolo Oscar, non potrebbe formulare la frase “sono un cervello in una vasca”, perché Oscar non ha alcuna esperienza di un vero cervello in una vera vasca. Piuttosto, direbbe qualcosa come “sono l’immagine di un cervello nell’immagine di una vasca”.
La scomparsa del professor Putnam ha scaturito parole di grande impatto da parte dei suoi colleghi. Il filosofo Martha C. Nussbaum ha scritto sull’Huffington Post che il professor Putnam è stato “uno dei più grandi filosofi che il paese abbia mai prodotto” e lo ha paragonato ad Aristotele nella varietà dei suoi “creativi e fondamentali contributi”.
Il linguista e filosofo Noam Chomsky, che conosceva il professor Putnam da quanto entrambi frequentarono la Central High School di Philadelphia 75 anni fa, ha scritto in una mail che “aveva enorme talento e creatività, una delle menti più pregevoli che io abbia mai incontrato”.
E il professor Goldfarb di Harvard ha sottolineato: “Non conosco nessun altro che avesse questa ampiezza di vedute o assimilasse cose di ogni campo con medesima velocità. Essenzialmente lui era la mente più veloce che io avessi mai incontrato”.
Hilary Whitehall Putnam era nato a Chicago il 31 luglio 1926 e aveva trascorso la maggior parte dell’infanzia in un villaggio vicino a Parigi, dove la sua famiglia si era trasferita. Suo padre, Samuel Putnam, era un importante traduttore di lingue romanze – la sua traduzione di Don Chisciotte è pubblicata da Modern Library – e sua madre Riva Sampson, era una segretaria. Dopo che la famiglia tornò negli Stati Uniti negli anni Trenta e si stabilì a Philadelphia, Samuel Putnam divenne un editorialista per il giornale comunista The Daily Worker.
Hilary Putnam si laureò alla University of Pennsylvania, iniziò il master a Harvard e finì il suo dottorato all’Università della California, Los Angeles, dove studiò con Reichenbach. Prima di finire a Harvard, insegnò a Northwestern, Princeton e M.I.T.
Appartenente alla sinistra radicale, il professor Putnam visse in una comune a Cambridge, organizzò attività contro la guerra in Vietnam e fu attivo negli Studenti per una Società democratica, e diventò membro del Partito progressista, una propaggine del Partito comunista. Più avanti tagliò i ponti con il gruppo e dichiarò che l’iscrizione era stata un errore.
Nel 1962, il professor Putnam sposò Ruth Anna Hall, filosofa che insegnava al Wellesley College. Lei gli sopravvive, insieme ai due figli maschi, Samuel (che è sposato alla signora Steinitz) e Joshua, le due figlie femmine, Erika Putnam Chin e Maxima Kahn, e quattro nipoti.
Forse la migliore incarnazione dell’infaticabile intelletto del professor Putnam è la sua più notevole marcia indietro. La sua origine è in un lavoro del 1960 intitolato “Menti e macchine”, in cui si occupa del problema del rapporto tra mente e corpo, la relazione pensieri e sentimenti da un lato e stati e processi fisici dall’altro. Il professor Putnam propose l’idea che se è possibile dire che gli esseri umani hanno un’anima, è impossibile dire che le macchine non ce l’abbiano, e che l’esistenza di un complicato modello di come un essere umano opera – come un modello di come una macchina funziona – è possibile.
Il suo pensiero fu una componente di quello che fu poi chiamato funzionalismo, un’idea di grande influenza per i suoi sostenitori e detrattori nel campo delle scienze cognitive e della filosofia della mente che definisce uno stato mentale (un pensiero, affermazione o desiderio) in base al ruolo che gioca nella complicata macchina, o sistema cognitivo, in cui esiste.
Il dolore, per esempio, verrebbe definito da un funzionalista come uno stato mentale che è generalmente causato da una ferita del corpo, che genera il senso che ci sia qualcosa che non va e provoca l’istinto di lamentarsi o urlare.
Ma il professor Putnam in seguito rigettò il funzionalismo, sostenendo che la nostra comprensione della “macchina” umana, fosse insufficiente a reggere la teoria funzionalista.
“Potrei essere stato il primo filosofo che ha proposto la tesi che il computer è il modello giusto per la mente” ha scritto nell’introduzione del suo libro “Rappresentazione e realtà” (1988). “Ho dato alla mia espressione di questa dottrina il nome di ‘funzionalismo’ e sotto questo nome, è diventata l’opinione dominante – alcuni dicono l’ortodossia – nella filosofia della mente contemporanea. In questo libro sosterrò che l’analogia del computer, che la chiamiamo “visione computazionale della mente”, funzionalismo o in qualsiasi altro modo, non risponde poi alla domanda a cui noi filosofi (insieme a molti scienziati cognitivi) vogliamo rispondere: quale sia la natura degli stati mentali. Dunque, come mi è già capitato in più di un’occasione, criticherò una tesi che io stesso avevo avanzato”.
Il professor Putnam è stato ridicolizzato da alcuni per aver cambiato idea, ma si è difeso: “Il lavoro di un filosofo non è produrre una tesi X e poi, quando possibile, diventare il Signor Tesi X o la Signora Tesi X”.
Se l’indagine filosofica, ha aggiunto, “ha contribuito al dialogo lungo migliaia di anni che è la filosofia, se ha approfondito la nostra comprensione dei quesiti cui facciamo riferimento come ‘problemi filosofici’, allora il filosofo che conduce queste indagini sta facendo il suo lavoro”.
Bruce Weber, The New York Times, 17 marzo 2016