Pagine Ebraiche – Simon Schama:
“La Storia che racconto è un’arte”

Harvard, un’intera classe con il fiato sospeso. Il docente non rinuncia al suo inconfondibile aplomb britannico e vola sulla grande Storia e sulle storie di tutti, spiega l’arte e l’eroismo, l’identità e la politica. Tutto si frammenta e si ricompone in un caleidoscopio prodigioso, sbalorditivo. Poi, come talvolta accade di fronte a ciò che è enormemente complesso ed estremamente semplice allo stesso tempo, uno studente rompe l’incanto: “Professor Schama, i miei genitori non pagano volentieri una retta di decine di migliaia di dollari per farmi uscire dalle sue lezioni più confuso di quanto non ci sia entrato”. Simon Schama si interrompe giusto un attimo, gli rivolge senza scomporsi uno sguardo intenerito: “Caro amico, questo è esattamente l’unico motivo per cui valga la pena di pagare una retta. Un fenomeno che si chiama educazione”. Da allora lo storico londinese ha continuato la sua ascesa ai vertici dell’accademia internazionale e oggi è considerato una delle voci più autorevoli della Columbia University. Una combinazione inestricabile di enorme erudizione e di straordinarie capacità comunicative ne fanno un punto di riferimento per il mondo accademico come per milioni di comuni cittadini. Per lui la Storia è per tutti, è di tutti. E va raccontata con ogni a disposizione. Con l’università e con i libri. Con la conoscenza dell’arte e con il linguaggio della televisione. Ora Simon Schama si appresta a sbarcare a Venezia. Venti minuti per raccontare cinque secoli. I 500 anni che ci separano dall’istituzione da parte della Serenissima di quello che è divenuto l’archetipo di tutti i ghetti, di tutte le separazioni. Appena un bagliore in Laguna, forse la sua prova più difficile, per spiegare il segreto del simbolo che ha reso immediatamente riconoscibili in tutto il mondo le tormentate, bimillenarie vicende dell’ebraismo italiano.

Professor Schama, lei è considerato il più autorevole fra gli studiosi che vogliono mettere le chiavi della Storia nelle mani della gente. L’accademia le va stretta?

La conoscenza della Storia – spiega – non risponde solo alle esigenze degli accademici. Perché è uno studio che ci consente di capire davvero non solo quello che è accaduto, ma anche quello che sta accadendo e quello che ci riserva il futuro. È un modo per scandagliare l’animo umano. Per capire l’energia che sta alla base della sua capacità creativa.

Il primo volume della sua Storia degli ebrei (In cerca delle parole, Mondadori editore per l’edizione italiana) ci accompagna dalle origini del popolo ebraico al 1492. Il secondo, attesissimo, libro dovrà condurci fino ai giorni nostri. Ma sono in molti a chiedersi come, e da dove, riaprirà il dialogo con i suoi milioni di lettori.

Si aprirà proprio a Venezia, e proprio con le vicende del primo ghetto. È quello il punto di svolta, il nostro inizio per comprendere il presente. Vorrei attraversare questi ultimi cinque secoli e rendere visibile il percorso. Il Rinascimento ebraico, l’affermazione della parola stampata, i Lumi, il graduale, faticoso ritorno degli ebrei nelle terre da cui erano stati cacciati, l’emigrazione dal vecchio mondo al nuovo, Hollywood, gli orrori della Shoah, il ristabilimento dello Stato di Israele.

Si tratta probabilmente del più atteso lavoro di uno storico per la prossima stagione editoriale. Il suo titolo risponderà alla domanda suscitata e lasciata in sospeso dal primo volume?

Si intitolerà Quando le parole non bastano. Perché, fra una sconfitta e un’esaltazione, in ogni caso l’esperienza di persecuzione e di separazione che è cominciata con il primo ghetto è il segno che ancora ci accompagna. Mio padre mi ha insegnato che noi siamo il popolo della Parola, che la nostra fede sta nella parola. Ma la Parola da sola non sempre è stata sufficiente per tenerci al riparo dalle forze del sospetto e dell’odio.

Ma la separazione, il ghetto, non costituiscono in definitiva anche la migliore tutela dell’identità minoritaria?

L’identità ebraica è qualcosa di molto complesso, non può essere esclusivamente misurata ed esclusivamente definita con la Legge ebraica. Credo che sia nostro dovere continuare a credere in un mondo dove l’identità possa crescere liberamente senza subire la separazione.

Lei, professore, ha un originale modo di raccontare la Storia. La rigorosa ricostruzione dei fatti si innesta nella interpretazione artistica, nella decodificazione della creatività umana, nella penetrazione psicologica. L’orizzonte dell’infinito e l’attimo si toccano. L’estremamente complesso e l’enormemente semplice infine si sovrappongono. Insegna nelle maggiori università e incanta i milioni di cittadini che sperano di trovare educazione e cultura attraverso le semplificazioni del mezzo televisivo. Da dove deriva, come si impara questa formula?

Capire la Storia significa capire la realtà e viaggiare contemporaneamente in un’altra dimensione. Mette in gioco anche la comprensione dell’arte e della letteratura. È un’idea di cui possiamo trovare traccia, per esempio, anche nelle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, o nei libri di Umberto Eco, che rimpiangiamo proprio in questi giorni. Non basta il lavoro scientifico. Senza rinunciare al rigore, dobbiamo mettere in gioco anche la nostra capacità creativa.

Nella conoscenza storica possiamo trovare gli strumenti per costruire la nostra vita, la nostra identità?

La società in cui viviamo non ha ancora terminato di essere alle prese con la minaccia della separazione. Anzi i nuovi tribalismi in agguato sono profondamente preoccupanti. La migliore difesa per tutti, e per gli ebrei in particolare, è proprio l’impegno di studiare la Storia come una materia viva, interpretare il paesaggio culturale nel suo complesso. Opporsi a tutte le barriere.

Le produzioni della BBC e della PBS hanno messo milioni e milioni di cittadini in condizione di capire la complessità della storia e della cultura. In cinque ore di trasmissione hanno fatto viaggiare i telespettatori lungo cinque millenni senza uno sbadiglio. È noto per fermarsi a discuterne con tutti, anche con i semplici cittadini che la riconoscono come un’icona della divulgazione culturale, anche con la sua fioraia. Eppure continua a diffidare dei social network.

Lavoro nelle università. Scrivo. Cerco di divulgare. Partecipo alle grandi produzioni della televisione di qualità, perché credo sia importante raggiungere le grandi masse e restituire loro la conoscenza della storia. Ma non sento il bisogno di immergermi nel cretinismo frammentario dei segnali che viaggiano sulla rete, mettermi a discutere con quelli che campano disseminando il sospetto, la cultura del complottismo e dell’odio.

Proprio la lotta al complottismo e al sospetto l’ha portata negli scorsi a pubblicare sul Financial Times una denuncia molto forte dell’antisemitismo mascherato da antisionismo.

La cultura della sinistra è malata di sospetto e antisemitismo. Una miscela di ignoranza e frustrazione che prende le mosse dalla legittima possibilità di criticare l’operato di uno specifico governo israeliano per sfociare in effetti in un odio preconcetto nei confronti dello Stato ebraico e di tutti gli ebrei. È ora di opporsi con forza a questa pericolosissima degradazione. Con il naufragio delle teorie del socialismo marxista, le energie militanti che si erano accumulate hanno bisogno di uno sbocco. I problemi di Israele esistono, quelli dei palestinesi anche. Ma non sono diversi o più gravi degli altri focolai di crisi in giro per il mondo di cui nessuno, men che meno i militanti di una sinistra senza cervello, pensano di preoccuparsi.

Come mai la loro indignazione è così strettamente selettiva. O, per metterla in altri termini, come mai è così facile odiare gli ebrei?

Torniamo alla storia ebraica, a come trasmetterla alle nuove generazioni. Il grande tema da porre al centro dell’attenzione, per noi ebrei come per tutti gli altri, è che non possiamo fare a meno della storia ebraica. E la storia ebraica non può esistere, non potrebbe essere compresa, se non esistesse la storia degli altri. Né la grande storia potrebbe essere concepita, se non ci fosse una storia ebraica. Il tema è che relazione c’è stata e ci potrà essere fra gli altri e noi. Se gli ebrei possono o non possono vivere in mezzo agli altri popoli. Se lo vogliono fare, se sono in grado di raccogliere la sfida. E se sono autorizzati a farlo. Una prova della verità per tutte le società in cui viviamo. E per noi, in primo luogo.

Guido Vitale, Pagine Ebraiche, Marzo 2016

La magia della storia, negoziazione poetica

i-giorni-che-hanno-cambiato-la-storia-ditalia-x1000“È in tempi sia politicamente che economicamente difficili, come quelli che stiamo vivendo, che abbiamo bisogno più che mai dello sguardo lungo della storia”. Sono parole di Simon Schama, scritte per un articolo dedicato all’insegnamento della storia nelle scuole e pubblicato nel 2010 dal Guardian. Giorgio Albertini nell’introduzione del suo I giorni che hanno cambiato la storia d’Italia. Momenti storici e protagonisti che hanno determinato il destino del nostro Paese, volume appena portato nelle librerie da Newton Compton, scrive: “Sottolineare quei giorni che tracciano la nostra specificità è necessario per definire l’identità italiana, per creare punti saldi che ogni cittadino dovrebbe conoscere per evitare di ‘spezzare il legame della memoria nazionale, unico filo che tiene unita una comunità distinguendola da una scena globale sempre più omogeneizzata’”. La citazione contenuta nella citazione è ancora di Schama, che crede profondamente nel potere della storia, in quella che chiama “la magia della storia, che è sempre anche una negoziazione poetica”. C’è una grande fame di narrazione, spiega ancora mentre racconta come lavorare per le produzioni televisive gli abbia permesso di raggiungere una audience di dimensioni altrimenti impensabili. “Le immagini sono potenti, sono un mezzo straordinario per far passare messaggi e informazioni che altrimenti non sarebbero colti, o risulterebbero molto pesanti, ma che sono assolutamente essenziali in un periodo storico come il nostro, in cui gli stereotipi lungi dall’ammorbidirsi tendono a diventare sempre più rigidi. E la storia più essere vista come una scienza del passato, una disciplina da ricercatori e studiosi, oppure come un argomento più vivo, che anche quando racconta fatti distanti parla dell’attualità, ed è sempre capace di coinvolgere e far pensare”. Ed è proprio per aiutare e sostenere chi sui fatti storici vuole appoggiarsi che Albertini, storico, archeologo, e docente di Nuovi linguaggi dell’arte contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti Europea dei Media di Milano, oltre che illustratore, ha scritto un volume che “rimette le cose in ordine”. Si legge: “Cos’è successo il 20 settembre? Che cosa il 24 maggio o il 22 marzo? Sapete dare una risposta? Molti ovviamente sì, alcuni no, eppure quante volte siamo passati in vie e piazze che portano nel loro nome tali indicazioni temporali? Sono date famose, che segnano momenti fondanti della nostra storia, che hanno formato la memoria nazionale di noi italiani e che distinguono la nostra comunità dalle altre. Però, non tutti i giorni in cui è successo qualcosa di memorabile nominano un viale alberato della nostra città; il ricordo di alcuni, la maggior parte, rimane relegato ai libri di storia, appannaggio solo di pochi addetti ai lavori”. Alcune delle date scelte da Albertini sono imprescindibili, come il 25 aprile o il 2 giugno, altre invece sono frutto di scelte più particolari e specifiche. Ma sono tutte date che compongono la trama della nostra Storia e che concorrono a creare punti saldi che ogni cittadino dovrebbe conoscere per evitare di spezzare il legame della memoria nazionale, date che hanno modellato l’essenza del Paese nella politica, nella scienza, nella cultura, nell’arte, nel costume, nel bene e nel male. Perché, dice ancora Schama, “The seeding of amnesia is the undoing of citizenship”, seminare amnesia è lavorare al disfacimento della cittadinanza. E a chi chiede a cosa serva la storia propone alcune risposte: “L’analisi dei fatti e la capacità di decidere quale sia la versione più credibile di un evento, la conoscenza analitica della natura del potere e la comprensione delle dinamiche fra le società, unita alla familiarità con le follie della guerra che porta a distinguere fra conflitti giusti e ingiusti. Questo è quello che può donare una disciplina. E, in definitiva, tutto l’insegnamento della storia è un entrare nella vita degli altri, che è in assoluto il modo migliore per imparare la tolleranza”.

Ada Treves, Pagine Ebraiche Marzo 2016