Il mio Purim
Purim Keppurim!
Sono le sei del pomeriggio, lo annuncia il cucù svizzero sopra la ghiacciaia, o forse già il nostro primo frigorifero.
Mio fratellino è a balia presso una coppia di ambulanti ebrei a Noisy-le Grande, vicino a Parigi. Nella grande cucina è indaffarata Wanda, la cameriera polacca che lavora e dorme in casa nostra. La grande cucina? È l’unica grande delle tre stanze del nostro appartamento in rue Vieille du Temple. Grande allo sguardo di un bambino di otto anni, figlio di reduci dai campi di sterminio polacchi approdati a Parigi all’inizio del 1946. Wanda non ha impiegato molto tempo per compormi il piattino della cena fredda. Oggi posso dire che a casa la mamma era decisamente una salutista ante tempo, per cena, lo elenco in francese: aricots verds, tomate, e Petit Suisse. Per me cena infame e indigesta. Il pane non si magia perché fa ingrassare. Ho probabilmente dato un’occhiata distratta alla ghiacciaia-forse frigorifero, e constatato che dopo l’estrazione della mia cena era rimasta vuota. È la sera di Purim.
Verso le nove qualcuno suona alla porta, mi precipito sperando che fossero i miei, ma è una vicina di cortile Rachel, una donna di una trentina d’anni che vive insieme al fratello, molto più vecchio di lei e all’anziana madre; porta il tradizionale dono di Purim. Ha infatti in mano un piatto coperto da uno straccio bianco e pulito, forse un tovagliolo, non c’era la carta argentata né la plastica. D’autorità Rachel lo depone sul grande tavolo della grande cucina. Io, curiosissimo aspetto che sia andata via per sollevare un angolo dello straccio bianco: due fette di due torte diverse e un biscotto che mi sembra gigante. Tuttora non so se è stata la paura del rimprovero che mi ha impedito di fare un assaggino.
Mamma e papà tornano dopo le 22, lo dice il cucù svizzero.
“Joyeux Purim, Charlie”, mi sollevano mi baciano e poi mi guardano silenziosi. Si siedono a tavola e papà nota l’involto con il piatto. “È Rachel”, dico io. “L’ha portato, non ho toccato”. La mamma sta preparando il the, scuro versato religiosamente in due bicchieri. Si siedono, io tra di loro e dividono con me torte e biscottone chiacchierando gioiosamente. L’ho capito molti anni dopo, semplicemente non c’erano i contanti per comprare da mangiare. Loro erano tranquilli, io avevo avuto cibo, secondo la mamma, a sufficienza e sopratutto molto sano. Papà aveva investito tutti i suoi averi nell’acquisto di nuove macchine per cucire per il laboratorio in crescita. Sarebbe stato indecente lamentarsi.
Forse è la memoria di questo Purim “dietetico” che dopo anni mi ha consentito di inventarmi una personale interpretazione della fiaba rituale di questa ricorrenza conosciuta come il Carnevale degli ebrei. Il racconto, tuttora consegnato a una pergamena esattamente come la Torah, si svolge nell’impero di Assuero al tempo dei Persi e dei Medi. Si racconta di un’imperatrice ebrea non dichiarata che riesce a salvare il suo popolo da un dignitario di corte che ha comprato dall’imperatore il diritto di annientare gli ebrei. L’imperatrice Esther, il cui nome significa “celamento”, insieme a suo zio Mordechai strappa invece all’imperatore il diritto per gli ebrei di difendersi. Così alla data prevista per l’inizio del genocidio, gli ebrei nelle principali città dell’impero si armano e si difendono. L’imperatrice Esther otterrà dai saggi di Israele di trasformare in festività canonica il giorno della difesa. La particolarità di questa narrazione sta nell’assenza clamorosa del Dio di Israele che non si menziona mai e nemmeno vi si allude. Per festeggiare questa ricorrenza viene fissata la lettura del rotolo, lo scambio di doni d’amicizia, l’elargizione di oboli di solidarietà e soprattutto l’usanza di travestirsi. I saggi sostengono che tutte le festività della tradizione di Israele sono destinate a scomparire, eccetto la ricorrenza di Purim. Alcuni maestri cabalisti e hassidici disquisiscono sul fatto che la parola Kippurim, che è il nome biblico del giorno dell’espiazione, potrebbe vocalizzarsi KePurim, “come Purim”, il carnevale degli ebrei diventerebbe così il paradigma del giorno della espiazione. Gioco di parole, gioco di vita mi suggerisce, Charlie all’orecchio. Nel giorno di Purim il grande Assente si traveste da Dio, quel Dio mago onnipotente, forzuto, leale che da dietro le quinte manovra e salva il suo popolo. Il travestimento è il suo modo preferito di incontrare l’umanità da Lui creata. Sei mesi dopo, o sei mesi prima fa lo stesso, nel giorno dell’espiazione è l’uomo a travestirsi da angelo digiunante e supplicante per incontrare il suo creatore.
Ritroviamo Charlie un giorno di primavera del 1980 alle 6 di pomeriggio di fronte al Plaza di New York, tengo tra le dita della mia mano sinistra, sono un mancino corretto, l’invito ad un party di Purim organizzato da un magnate ebreo. “Si prega di presenziare travestiti” si legge sul cartoncino. Ho sul capo il mio basco e penso che dovrebbe bastare. Credo che il pasto che verrà servito avrà poco a che vedere con quello “dietetico” di alcuni decenni prima in rue Vieille du Temple… Oggi siamo di nuovo nelle vicinanze della festività, mi viene in mente che il massimo del travestimento lo si raggiunge nel celamento.
Haim Baharier
(27 marzo 2016)