Venezia e i 500 anni del ghetto
L’occasione giusta per ricordare i diritti negati

CalimaniLa storia dell’ebraismo è costellata di tormenti e persecuzioni a cadenza regolare. La Shoah ne è stata il culmine atroce. Il popolo ebraico ha rafforzato la propria identità anche (non certo soltanto!) esercitando la memoria del pregiudizio e della discriminazione di cui è stato oggetto nei secoli. Non credo che un’altra cultura, oltre alla nostra, abbia puntato tanto sulla memoria. La nostra non è mai celebrazione, ossia atto di esaltazione o glorificazione. È invece il ritrovarsi insieme nell’atto di co(m)-memorazione, l’unirsi nel ricordo che di norma, ove nel caso, si conclude con un kaddish.
L’istituzione del primo ghetto formale della storia costringe a riflessioni di vario genere. Non si tratta, in effetti, del primo ghetto in assoluto. In Marocco c’erano le mellah, a Tunisi la hira, che in Algeria si chiamava harrah, e al Cairo harat al yahud; in Spagna juderìa. Nessuno si è mai sognato di dire o di pensare che l’isolamento, la segregazione, fossero un privilegio di cui andare lieti e fieri, qualcosa da festeggiare con concerti e bei discorsi di inaugurazione. Nessuno ha mai pensato che vivere in posizione subalterna fosse una chance, una porta aperta sulla strada del successo e della gioia. Solo a certi storici in cerca di originalità, cui non dispiace il revisionismo e la decontestualizzazione, solo a loro piace far credere che gli ebrei del 1500 e del 1600 e del 1700 fossero lieti di vivere come vivevano e di essere Schermata 2016-03-28 alle 12.51.21trattati come erano trattati. Ora, è vero che il Ghetto di Venezia non era il Ghetto di Roma. Non c’era la beneamata influenza del Papa, innanzitutto, e l’illuminata Repubblica Serenissima teneva alla sua indipendenza politica e alla sua moderazione religiosa. C’era tuttavia un’Inquisizione operante. E gli ebrei, dentro al Ghetto, erano dei paria, residenti stranieri senza diritto di cittadinanza, accettati finché ritenuti utili, ricattabili a scadenza regolare, sempre a rischio di cacciata, senza poter rivendicare alcun diritto, tranne quello di pagare laute tasse. Gente ammassata in un’area ridotta, costretta a una promiscuità talora indecente e indecorosa che – se volessimo anche noi rileggere la storia con gli occhi di oggi – definiremmo bestiale.
Questo fenomeno di degradazione dell’ebreo che è stato il Ghetto di Venezia non può essere considerato un ‘meno peggio’; non si possono considerare soltanto le punte dell’iceberg, le eccellenze culturali di pochi – Elia Levita, Leon Modena, Simone Luzzatto – o le ricchezze di alcuni eletti gruppi familiari. Ricordarsi di loro ed esaltare un’epoca significa dimenticarsi, come fa spesso la storia, le moltitudini che hanno sofferto e patito, che hanno vissuto la loro unica possibilità di vita avvilite nell’abiezione. Ben peggio dei loro contemporanei non ebrei.
Sull’istituzione del ghetto e sulla vita che vi si condusse o sulle acquisizioni culturali che vi ebbero luogo, si possono organizzare convegni e seminari, confronti e dibattiti. Non eventi clamorosi che rischino di essere vissuti, da chi li organizza e da chi ne fruisce, come gioiose apoteosi di una storia che con la realtà ha ben poco a che fare. Quando le porte del Ghetto furono chiuse, non era poi così lontano il ricordo dei tre ebrei di Porto Buffolè che nel 1480 furono condannati e bruciati in Piazza S. Marco, per il solito presunto omicidio rituale. Non era ancora ghetto, ma era già Ghetto.
Su un gradino dell’Aron haKodesh della Scola Canton, in Ghetto Nuovo, è inciso il ricordo di Mordechai ben Menachem Baldosa, un ebreo assassinato, “scannato come un capretto”, nel 1672. Un ebreo che non ha certamente avuto giustizia, perché la giustizia per gli ebrei non era forse propriamente contemplata. Sarebbe bello e appropriato che, nella mente di chi celebrerà con concerti, mostre e rappresentazioni la chiusura del Ghetto nel 1516, ci fosse quell’epigrafe e quell’incidente, a simbolo di tutti i diritti che la storia e la cultura occidentale hanno negato a un intero popolo. E che qualcuno, per i tre di Porto Buffolé, per Mordechai Baldosa e per gli altri di cui forse non ricordiamo e non sappiamo, recitasse un kaddish.

Dario Calimani, anglista, Pagine Ebraiche Marzo 2016

(Foto: Paolo Della Corte)

(28 marzo 2016)