Venezia e i 500 anni del ghetto
Un microcosmo vivo e colorato

enrico levisLa data del 29 marzo 1516 è un momento forte nella storia ebraica nel suo complesso. Il decreto del Senato della Repubblica Veneta che destinava agli ebrei una porzione della città, nella contrada di San Girolamo – sede in precedenza di una fonderia semi-abbandonata (“geto”) – costituiva un tornante significativo per la vita di tutti gli ebrei, non solo veneziani. Questo perché, dopo tante espulsioni o conversioni forzate – in analogia con quanto avvenuto nella città lagunare – da allora un po’ dappertutto, nei paesi del Mediterraneo, si moltiplicarono i “Ghetti” che davano asilo a quanti erano obbligati a risiedere in una ben precisa zona recintata della città.
Anche in precedenza, a Venezia avevano abitato ebrei, ma l’ammissione di residenti ebrei era stata sempre contrastata, sia da parte delle autorità religiose (sempre attente a proteggere dalla contaminazione i loro fedeli) sia da parte dei patrizi, che desideravano custodire il mercato di Rialto da potenziali concorrenti. In passato, nel periodo medievale – comunque – qualsiasi raggruppamento ebraico doveva essere di piccole proporzioni e quanto mai provvisorio. Dal 29 marzo 1516, invece, un qualche precario equilibrio tra due forze contrastanti si era venuto a raggiungere, tra una via di accesso più o meno stabile per gli ebrei a Venezia, e una recinzione che li tenesse all’esterno della città.
Da allora, sino all’abbattimento nel luglio 1797 dei portoni che limitavano l’accesso al quartiere e sino all’innalzamento di un albero della libertà, simbolo della Rivoluzione francese, il Ghetto – nato come spazio di segregazione e di umiliante discriminazione – apparteneva agli ebrei che ne fecero un microcosmo quanto mai colorato per la varietà delle mercanzie e dei banchi che vi avevano sede, spezzandone ogni senso di marginalità. E questo anche se agli ebrei non era concesso di possedere alcuno dei suoi edifici, dovendo anzi essi pagare degli affitti sempre più onerosi, mano a mano che le condotte venivano rinnovate, con l’obbligo di rientrarvi la notte e di pagare le guardie che controllavano i cancelli e pattugliavano su barche i canali. Da allora – pur tra luci ed ombre – esso è rimasto storicamente uno spazio pubblico ebraico, con una natura e una funzione diversa nel tempo, ma che nel tempo gli ebrei hanno saputo inventare e reinventare in un complesso equilibrio che l’ampio affresco di Cecil Roth Gli ebrei in Venezia, nei lontani anni Trenta, ha fatto rivivere in pagine ricche di pathos e di partecipazione. La più recente Storia del Ghetto di Venezia di Riccardo Calimani (tradotta in varie lingue e riedita da poco) ha poi raccolto il tortuoso cammino delle diverse Nazioni che l’hanno costituito (ognuna con i propri riti e idiomi), offrendo una vivida descrizione delle loro relazioni reciproche e degli altalenanti rapporti con il governo cittadino, in un insieme di storie affascinanti che hanno trasceso e superato le mura del Ghetto. Gli ebrei di Venezia hanno sempre mantenuto infatti salde connessioni non solo con mercanti, rabbini, pellegrini, medici di tutte le maggiori Comunità d’occidente e d’oriente, ma anche con la popolazione veneziana, quando, ad esempio, nelle sinagoghe era segnalata la presenza di qualche predicatore di grido, o vi era la curiosità di assistere a feste tradizionali, a concerti o spettacoli. Nei secoli, quindi, a partire dal Ghetto, si è dato vita a percorsi che – intrecciandosi con altri – hanno concretizzato negli anni il contributo della minoranza ebraica alla formazione dell’identità culturale italiana ed europea, a cominciare dal fiorire degli intensi traffici commerciali e spirituali con i diversi nuclei della diaspora, mentre l’accuratezza e la perizia dell’editoria ebraica veneziana rendevano famosa e prestigiosa in tutta Europa la sua produzione libraria (il Talmud è tuttora stampato secondo l’impostazione iniziale di Daniel Bomberg!).
Nelle calli del Ghetto e nei suoi canali ritroviamo forme e tracce che ci parlano delle rotture, delle ferite e delle sofferenze dei nostri antenati ma che ci invitano anche a nuovi percorsi – ricchi di memorie e di rappresentazioni – che possano ancor oggi costituire un paradigma per affrontare le sfide assai difficili con cui la società odierna è chiamata a confrontarsi, in un discorso culturale di ampio respiro, il cui significato vada ben oltre quello di uno spazio esclusivamente ebraico, in cui né gli attori né il pubblico sono necessariamente ebrei. A partire dal prossimo giugno, la mostra a Palazzo Ducale, curata da Donatella Calabi, su Venezia, gli Ebrei e l’Europa costituirà in tal senso un evento significativo nell’illustrazione della ricchezza dei rapporti tra ebrei e società civile attraverso materiali storici ed artistici, ed elaborazioni multimediali. Una preziosa parziale testimonianza di tale ricchezza è il volume, appena uscito, di Umberto Fortis su L’attività letteraria nel Ghetto–Venezia 1550-1650 attraverso le figure di rabbini come Leon Modena o Simone Luzzatto, o di poeti come Salomon Usque o Sara Copio Sullam.
Nel corso del 19esimo secolo (e durante i primi decenni del 20esimo) il Ghetto si veniva a spopolare progressivamente degli ebrei, per una sorta di ambivalenza di questi verso un quartiere sentito solo come simbolo di indigenza e segregazione, preferendo essi trasferirsi in zone più centrali e ritornarvi invece solo in occasione delle principali festività, come ci illustra Simon Levis Sullam in Una comunità immaginata. Gli ebrei a Venezia (1900-1938). E la zona ebraica restava degradata anche sul piano architettonico e urbanistico, tanto da non comparire per lungo tempo nelle guide e negli itinerari turistici. Solo verso la metà degli anni Settanta la sede della Comunità, l’ufficio del presidente e il Centro sociale e culturale ritornarono nel Ghetto, anche se nel frattempo la popolazione ebraica ivi residente si era assai assottigliata, mentre i visitatori vi giungevano in misura sempre crescente da ogni parte del mondo. Vengono poste sulle mura del campo di Ghetto Nuovo delle formelle in bronzo, monumento di Arbit Blatas ispirato alle vicende delle deportazioni (che anche nella città lagunare hanno visto la tragica scomparsa di oltre 240 ebrei). Di fronte a tali radicali mutamenti, la città, lo Stato, i Comitati internazionali di raccolta fondi hanno manifestato il loro interesse, sostenendo anche in concreto un’opera di salvaguardia monumentale, che vede attualmente impegnato – al di là dell’Atlantico – il Venitian Heritage secondo un progetto redatto su incarico dell’Unesco.
Il Museo ebraico (il cui nucleo originario risale agli anni Cinquanta), dove – con oggetti rituali e arazzi – viene illustrata la storia e la quotidianità della Keillà, potrà avere una nuova vita più consona alle attuali metodologie espositive. E l’importante Biblioteca-Archivio che – accanto a preziosi manoscritti – raccoglie migliaia di libri antichi, potrà essere meglio valorizzata e integrata nei percorsi museali. La riapertura recente di un ristorante casher potrà a sua volta offrire una felice rivisitazione di proposte culinarie dalle più diverse origini. Il Ghetto – secondo le parole del filosofo Massimo Cacciari, già sindaco della città – potrà divenire così uno dei ‘luoghi’ emblematici di Venezia, un suo topos che continuamente ci interroga e ci “provoca” in ciò anche favoriti anche dall’afflusso massiccio di turisti che – nell’ambito di un crescente interesse culturale per il mondo ebraico in genere – vi giungono da ogni parte, attratti dalle sue antiche sinagoghe e dalle sue pietre silenziose che – magicamente – rendono visibili alcuni passaggi fondamentali della cultura biblica e talmudica, della tradizione cabalistica e della storia ebraica in generale.
La giornata del 29 marzo 2016 – che verrà ricordata alla Fenice dallo storico della Columbia University Simon Schama, dando voce ad alcuni aspetti salienti della storia del Ghetto prima dell’esecuzione di musiche di Mahler sotto la direzione dal Maestro Omer Meir Wellber – potrà essere così l’appuntamento iniziale di una serie di eventi che – dall’integrazione delle vecchie, multiformi radici in parte tagliate, in parte conservate – possano ispirare prospettive nuove che, da un centro rinnovato – attraverso la reinvenzione di itinerari culturali e spirituali molteplici – ridiano corpo e futuro a una comunità piccola ma ricca di storia, in grado comunque di affrontare con determinazione le difficoltà e le sfide dell’oggi.

Enrico Levis, psicoterapeuta, Pagine Ebraiche Marzo 2016

(28 marzo 2016)