Barriere fuori tempo
Le esperienze personali influenzano i nostri giudizi sugli avvenimenti generali. Martedì 15 gennaio sono atterrato a Bruxelles, poche ore prima del blitz fallito per catturare Salah Abdeslam. Giovedì 17 sono finito con un gruppo a visitare Molenbeek, ho girato per il mercato e incontrato degli attivisti che nel quartiere lavorano per l’inclusione sociale. Il giorno dopo in quelle stesse strade hanno effettivamente trovato e catturato il terrorista più ricercato d’Europa, in barba alla retorica sui luoghi comuni che mi ero appena sorbito. Sono ripartito domenica 20 marzo usando ovviamente l’aeroporto al centro dell’attacco di martedì 22 (ma c’è chi se la è vista molto più brutta). In tutto ciò, ero andato per un seminario dell’American German Marshall Fund (quello del famoso Piano Marshall del Dopoguerra) sulle relazioni euro-atlantiche. Delle cose che mi hanno colpito, ce n’è una che forse si collega al dibattito su terrorismo, immigrazione, Europa eccetera eccetera. Tra i miei colleghi c’erano parecchi parlamentari e consiglieri comunali e regionali da molti paesi d’Europa: di questi, una buona parte non era nata in Europa. Africani, maghrebini, mediorientali, immigrati da bambini oppure figli di migranti. Un consigliere comunale di Anversa, addirittura, mi ha raccontato di essere approdato nel 1999 in Belgio dal Marocco, senza documenti, e di essere vissuto per circa due anni come clandestino. L’aspetto significativo è che queste persone sono espressione delle loro comunità, ne garantiscono gli interessi, non sono eletti per caso, indipendentemente dalla loro origine. In altre parole, per raggiungere la popolazione “straniera” spesso è indispensabile passare attraverso di loro. In questo senso, il dibattito italiano appare in ritardo di venti anni. Non solo ha poco senso discutere di muri e barriere, e non basta ricordare che gli stranieri (compresi quelli pericolosi) sono già nelle nostre città; qui esiste già una classe dirigente composta da migranti o figli di migranti, sempre più inserita nelle istituzioni e nei centri di potere, con cui in qualche modo si deve interloquire. Si tratta di un percorso irto di rischi. Ma l’alternativa la abbiamo già sperimentata in questi giorni.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas @tobiazevi
(29 marzo 2016)